Georges Prêtre (Waziers, 14 agosto 1924 – Navès, 4 gennaio 2017)
A Roma, quella sera, l’innumerevole coro di uomini, di donne, bambini, e tre soprani solisti, e un baritono, e un basso, e i cento e più professori dell’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia erano proprio sfiniti. Non ce la facevano proprio ad andare avanti con la prova dell’Ottava di Mahler nota come “la sinfonia dei Mille”, nella quale persino un mandolino è chiamato a produrre poche e secche tremolanti notine. Sul podio, in maniche di camicia, madido di sudore, Georges Prêtre non si arrendeva. Bisognava arrivare all’ultima battuta con la vitalità e con l’intensa emozione tipiche di Gustav Mahler. I guai erano incominciati alla battuta sopra la quale Prêtre aveva sempre letto la raccomandazione dell’autore: “Corni in piedi”. Ma gli otto cornisti (tanti ne occorono per la mastodontica opera), che avevano appena la forza di emettere il fiato, credettero opportuno di starsene seduti al loro posto. Intendiamoci: chiedere al cornista di suonare in piedi è come dire al contrabbassista di esibirsi seduto sopra un “pouf”. Ci vuole insomma un sacco di buona volontà e l’agilità di un ginnasta per stare alla lettura mahleriana. Nonostante ciò, Prêtre quasi si scandalizzò, al rifiuto dei cornisti.
Lui, instancabile, sportivo nato, “cintura nera” di judo, fanatico dell’atletica leggera e delle gare automobilistiche (alla guida della sua macchina, da buon francese, non scherza davvero), notò gli otto professori di corno incollati alla sedia. Diede “l’alt!”. Appoggiò la la bacchetta sul leggio e chiese ai cornisti di alzarsi in piedi, “per favore!”. Si trattava, in fin dei conti, di poche battute. Al deciso “no” del primo corno fece seguito quello degli altri. Il Maestro perse le staffe. Ne sorse una discussione poco simpatica. Spalleggiati dai numerosi colleghi ebbero la meglio i corni. Prêtre cedette, ma non li perdonò. Suppongo che abbia giurato in cuor suo di non mettere più piede in quella sala “con i cornisti che credono di saperla più lunga di me”. Poi se la svignò. Non se la sentiva di restare un minuto di più in mezzo ad un’orchestra che gli aveva negato il sottile giustificato piacere coreografico di otto cornisti in piedi nel corso di una fatica che essi giudicavano “da cani”, e lui, invece,” angelica “.
Prêtre, quella volta, conosceva l’effetto desiderato dall’autore. Effetto – si può obiettare – più ottico che uditivo. Però andava assolutamente rispettato, se non altro per amore verso Mahler. A Vienna, a Parigi, a New York, a Berlino, a Chicago si inchinano alle sue idee. Perché non a Roma? Proprio in Italia, dove torna volentieri tutti gli anni, quasi ogni stagione. Anche in luglio è venuto a incidere La Traviata per la RCA ed è andato ora a Perugia, per la Sagra Musicale Umbra. È rimasto profondamente amareggiato dall’atteggiamento dei “terribili corni romani”. Egli non è abituato a dar ordine per capriccio, anche se la sua direzione può apparire un estrosa esibizione, un fatuo divertimento.
Amabilissimo e simpaticone fuori degli auditori e dei teatri, non riesce tuttavia ad esserlo sempre, durante le prove, con gli orchestrali e con i cantanti quando li vorrebbe appunto dominare come se fossero una pedaliera d’organo. Se si accorge che qualche effetto sonoro svanisce proprio nell’attimo in cui avrebbe voluto modellarlo nella maniera più elegante, si innervosisce, si inquieta e rischia di mandare a monte l’intera esecuzione. Sul podio fa danzare la bacchetta che pare una scopa ai comandi dei maestri stregoni delle antiche fiabe orientali. La fa roteare sopra la testa del primo violino, e poi la fa sparire, per riprenderla poco dopo come un flauto o come l’arco di una viola o come la dura bacchetta dei timpani. Nei momenti di grande raccoglimento la fa leggermente vibrare in alto mentre accosta l’indice della mano sinistra alle labbra, quasi a baciarselo. Delle famiglie strumentali gli stanno più a cuore i fiati. Guai a contrastarlo su questo punto. Non dimentichiamo che la sua vocazione giovanile era la tromba e la sua più grossa ambizione fare il solista nel concertino in mi bemolle di Haydn e nel secondo Brandeburghese di Bach. Nel 1944, al Conservatorio di Parigi, si era portato via un primo premio di tromba. Aveva vent’anni.
Adesso è preso da altri più importanti impegni e si accontenta di guardare il suo strumento, muto, sopra uno scaffale e ricorda con nostalgia i formidabili timbri che ne cavava, proprio come quelli che sognavo Berlioz: suoni ora nobili e smaglianti, ora adatti alle idee guerriere e alle grida di furore e di vendetta. Lo tiene gelosamente custodito come una reliquia. Gli rammenta gli anni trascorsi a Weziers, la sua città natale, dov’era il più rumoroso del quartiere se tentava con la tromba certi spericolati “glissando”. Con altre note “frullate” impressionava maledettamente vicini. Con un diploma in tromba, a Parigi, o suoni il jazz nei “cabarets” o vai a finire in un’orchestra sinfonica, dove rischi di morire di noia. Grazie al cielo Prêtre aveva talento da vendere e oltre a leggere musica per tromba si mise avidamente a sfogliare enormi partiture di sinfonie di opere liriche. Il suo occhio finalmente spaziava su pagine fatte per lui. Prêtre presagiva di poter un giorno tenere sotto le mani un centinaio di professori, così come gli ubbidivano meccanicamente i pistoni della tromba. Si trovò a non toccare più lo strumento prediletto. Salire sul podio divenne il suo chiodo fisso. Lasciata definitivamente Weziers, si iscrisse alle scuole di Cluytens, Duruflé e Challan. Nel 1946 esordiva all’Opera di Marsiglia. La critica, anche la più arcigna, lo porta alle stelle: “È nato un maestro che lavora con la delicatezza uno scaltro chirurgo”. “Un abbagliante genio è fra noi”. E avanti di questo passo.
Si impose subito per L’eleganza del gesto, per quelle finezze interpretative che sono caratteristiche dei musicisti francesi. La sua carriera non ha più conosciuto soste. In breve tempo passa dalla direzione della Musica a Lille all’Opéra Comique di Parigi. Inizia lunghe “tournées” all’estero, che culminano al Metropolitan di New York , alla Scala di Milano. Festival come quelli di Salisburgo, Aix-en-Provence, non possono rinunciare la sua presenza. Memorabile il trionfo all’Opéra di Parigi con la Tosca di Puccini e con la Medea di Cherubini: opere nelle quali, pur discostandosi dalla tradizione italiana e tinteggiando le battute di sfumature personali. Prêtre si rivela per un adoratore del melodramma italiano. La Norma, Lucia di Lammermoor e La Traviata sono le sue favorite. A Parigi non dirige queste opere se non con grandi cantanti, con la Callas e con Tito Gobbi. Nel 1964 l’anno di un fortunato giro di concerti in nord America con la Royal Philharmonic Orchestra di Londra è stato nominato direttore dell’orchestra sinfonica di San Francisco. Dovunque vada ( un critico ha scritto che “richiesto come Figaro, Prêtre sembra essere sempre al posto giusto e al momento giusto”), fa di tutto per inserire nei programmi musiche di autori russi, da Caikovskij a Borodin a Sciostakovic, nonché le opere di autori moderni francesi. Gli piacciono immensamente. Non dimenticherò mai come interpretò il Bolero di Ravel. Riuscì ad elettrizzarci tutti, contagiandoci piano piano con quelli insistente motivo che l’autore aveva definito “lascivo”. Il pubblico fini non tanto di applaudire quanto di urlare. Dopo simili successi, Georges Prêtre torna con piacere al suo castello vicino a Parigi: un’antica costruzione mezza diroccata fino a poco tempo fa e che lui stesso ha deciso di far restaurare per rifugiarsi a studiare, a meditare, a godere anche la natura, e soprattutto a gustarsi l’intimità familiare, i suoi due meravigliosi bambini, un maschietto e una femminuccia, dei quali si vanta più dell’esecuzione di un Bolero ad una Sinfonia dei Mille. (Estratto da “Georges Prêtre – L’atleta con la bacchetta” di Luigi Fait, 1967)