Arena di Verona, Festival d’estate 2020
Orchestra dell’Arena di Verona
Direttore Alvise Casellati
Violinista Giovanni Andrea Zanon
Antonio Salieri: Ouverture Il mondo alla rovescia
Giuseppe Tartini: Sonata in sol minore Il trillo del diavolo
Tomaso Albinoni: Adagio in sol minore | Tomaso Albinoni
Antonio Vivaldi: Concerti Le quattro stagioni da Il Cimento dell’armonia e dell’invenzione op. 8
Verona, 13 agosto 2020
Vivaldi all’Arena di Verona? Fino a qualche decennio fa sembrava quasi impensabile. Abituati ad allestimenti spettacolari e mastodontici, con enormi masse corali, coreutiche e di figuranti di scena ed un’orchestra imponente in buca, mai si sarebbe potuta concepire una simile idea. Poi vennero gli allestimenti de Il barbiere di Siviglia (Rossini, 1996 e dal 2007 riproposto più volte) e del Don Giovanni mozartiano (2012 e 2015) a lasciare la porta aperta a possibili viaggi musicali a ritroso nella storia della musica.
Da qui è partita l’idea della Fondazione Arena di inserire in questo festival del tutto insolito una serata dedicata a Vivaldi e alla musica veneta. Va detto subito che, in un simile contesto e in uno spazio enorme qual è quello dell’anfiteatro veronese, non si poteva certamente optare per una lettura filologica. Gli archi dell’orchestra areniana si presentavano con una formazione di circa cinquanta elementi più clavicembalo e organo (in realtà una tastiera elettronica campionata); per il solo Salieri si erano aggiunti i legni più due trombe e timpani.
Il programma non poteva che essere dei più classici: l’arcinota raccolta Il cimento dell’armonia e dell’inventione” op. 8 e nella fattispecie i concerti Le quattro stagioni. Veneti erano anche, almeno di nascita, i due interpreti: il talentuoso ed ormai già consacrato violinista ventiduenne Giovanni Andrea Zanon e il maestro Alvise Casellati, l’avvocato convertitosi definitivamente alla direzione d’orchestra.
Dicevamo dei celebri concerti vivaldiani che illustrano il susseguirsi naturale dei mesi dell’anno; una lettura, quella di Casellati, nel complesso attenta e fedele ai più classici dettami della musica settecentesca con l’alternanza piano/forte desunta dallo schema del concerto grosso ma non particolarmente trascinante. L’incipit de La primavera, entrato nel fischiettare quotidiano di tutti, che avrebbe dovuto catturare da subito il pubblico non è risultato particolarmente incisivo.
I momenti migliori sono arrivati invece da L’estate (in particolare il temporale nel terzo movimento) e L’inverno con il famosissimo Larghetto che imita la pioggia grazie ad un bellissimo pizzicato degli archi. Il giovanissimo Zanon ha offerto un’esecuzione limpida e di particolare pregnanza, arrivando a coinvolgere il proprio corpo in una sorta di coreografia estemporanea che, in alcuni momenti, sembrava indirizzata a sferzare l’orchestra che tirava un po’ indietro. Il violinista ha arricchito la sua proposta vivaldiana indugiando nell’agogica, ad imitazione dei movimenti ubriachi del contadino ne L’autunno portando il suo violino (un magnifico Stradivari del 1706) ad una personificazione antropomorfa sul palcoscenico.
Il programma si era aperto con l’ouverture da Il mondo alla rovescia di Antonio Salieri, dramma giocoso del 1795, eseguita con particolare estroversità (ed una certa spavalderia del timpanista); a seguire la celebre sonata in sol minore nota come Il trillo del diavolo del veneto istriano Giuseppe Tartini. Anche in quest’ultimo brano, che presenta particolari difficoltà tecniche ma anche momenti di intenso lirismo strumentale, Zanon ha saputo destreggiarsi abilmente nelle sottili trame violinistiche della scrittura tartiniana. A completare la serata il brano di cui, francamente, avremmo volentieri fatto a meno: il celeberrimo Adagio di Albinoni, non tanto per il suo carattere profondamente intimistico e perciò inadatto ad essere eseguito a cielo aperto, ma perché in questo brano c’è più Giazotto (il biografo del compositore veneziano che ha ricostruito l’adagio da frammenti del basso continuo) che Albinoni. Non composizione originale, quindi, ma basata sulla presunzione storico stilistica: inoltre l’organo (o surrogato che fosse) petulante e con fastidiosi registri di ripieno inseriti ha disturbato non poco la secolare melodia dei violini. Al termine ben sette bis, generosamente concessi ad un pubblico entusiasta, tra i quali l’adagio dalla Sonata n. 1 per violino solo di Bach, il Capriccio n. 24 di Paganini e la sempre incantevole Meditation dal Thäis di Massenet. Pubblico ancora una volta attento e coinvolto emotivamente, forse disorientato dall’esecuzione senza sosta dei concerti vivaldiani; un incauto applauso partito alla fine del primo movimento de L’inverno non ha tuttavia spezzato l’incanto di una serata che partiva come una grande sfida alla monumentalità dell’Arena e ottimamente riuscita. Aspettiamo Monteverdi? Chi vivrà, vedrà. Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona