Sir John Barbirolli, nato Giovanni Battista Barbirolli (Londra, 2 dicembre 1899 – 29 luglio 1970) – A 50 anni dalla morte
Roma, maggio 1968
Il 14 aprile scorso a Roma, l’orchestra dell’Opera attese l’entrata di sir John Barbirolli in un silenzio di tomba. Quando si alzò il sipario, le prime note dell’Aida si levarono in un clima già rituale. Il silenzio assoluto sir John l’aveva preteso fin della prima prova. Giunto in Italia per debuttare come direttore d’opera, si era affacciato di soppiatto sulla soglia della porticina che porta all’orchestra, mentre i professori si raccontavano i fatti loro in attesa di eseguire la partitura verdiana. Barbirolli s’arrestò di colpo, non fece un passo oltre. Avverti musicisti che non sarebbe entrato se prima non fosse cessato quel rumore. Parve una pretesa stravagante, ma tutti tacquero e sir John entrò, camminando a passo lento: un uomo di non alta statura, con un volto serio e smagrito, capelli grigi spioventi, occhi affondati e scuri. Salito sul podio, anziché dare l’attacco, prese a parlare dell’Aida come di un’opera inesplorata: un catechismo abbastanza strano, nella terra di Verdi. Passarono circa due ore e finalmente si incominciò. Dopo qualche battuta, il direttore fece fermare l’orchestra e disse: “Va bene così, grazie; per oggi la prova è finita”.
Nella “Sala 50” del Teatro dell’Opera, è lo stesso protagonista a commentare il fatto: “Non sono entrato “, mi dice” Finché non hanno taciuto. Ma loro hanno capito che non era orgoglio il mio: soltanto così si poteva lavorare bene “. Barbirolli nacque il 1899 a Londra, ma la sua vera storia incomincio qualche anno più tardi, allorchè avvenne l’incontro con la musica. “Dall’età di otto anni, la musica è stata la mia vita”. Parla sottovoce, in una lingua ibrida e impastata, in cui la molle cadenza veneta, che denuncia chiaramente l’origine italiana (il padre del musicista era di Padova), si contrae a tratti negli urti dell’accento inglese. “Mio padre e mio nonno erano tutti e due violinisti, suonavano in un grande albergo di Londra. Furono loro a metterlo in mano il violino.Io ero piccolo e nervoso, non riuscivo a star fermo: suonavo passeggiando su e giù per tutta la casa. A mio nonno, che aveva il suo carattere, era veneto sa, quel mio continuo camminare dava i nervi. Un bel giorno non ce la fa più:uscì, dopo un’ora ritornò con un piccolo violoncello, un quarto: “e ora”, mi disse, “Dovrai stare fermo per forza”. Abbandonai il violino “. Con il nonno terribile il futuro di sir John andava ai concerti. “Avevo quattro anni quando iniziai a provare per la prima volta il desiderio di dirigere. A quell’epoca i direttori d’orchestra stavano seduti e portavano i guanti bianchi. Vederli mi affascinava. A casa, mi chiudevo in una stanza mi mettevo su un seggiolino e mi infilavo un paio di guanti bianchi rubati e mia sorella. Cantavo, gesticolando come avevo visto fare in teatro. Ma non volevo che scoprissero il mio segreto “.
A parte quegli incontri segret con la sognata immagine del direttore in guanti bianchi, Barbirolli studiava seriamente il violoncello. Il debutto avvenne nel 1911 alla Queen’s Hall di Londra, con un concerto di Goltermann, autore che aveva avuto una certa notorità il secolo scorso. A sedici anni, dopo gli studi al Trinity college e alla Royal Academy, entrò in orchestra.
Poi, andò in guerra. Finito il conflitto, fondò un’orchestra da camera. Un concerto fra tanti segnò la sua carriera: colpito dalla qualità del giovane musicista, il direttore della British National Opera Company, Frederic Austin, gli offrì la direzione di tre opere: Romeo e Giulietta, Madama Butterfly, Aida: l’invito era rischioso, Austin gli dava soltanto sei giorni di tempo e dodici ore di prova in tutto. Ma il risultato fu stupefacente. Qualche tempo dopo, la nomina a direttore del Covent Garden.
La storia continua con i dati di una biografia prestigiosa. Quando, nel 1936 si impone la scelta del successore di Arturo Toscanini da più parti si fa il nome di Barbirolli. Sette anni di esperienze sul podio della New York Philharmonic, poi la proposta stimolante: c’è da ricostituire la famosa orchestra Hallé di Manchester, semidistrutta dagli eventi della Seconda Guerra Mondiale. Barbirolli operò in breve tempo una sorta di miracolo: ricrea luogo e persone, superando fortissime difficoltà.
Raccontare il resto significa compilare un lungo elenco di trionfi, citare innumerevoli onorificenze e medaglie che ricordano l’instancabile attività dell’interprete a favore di tutti i più grandi musicisti. “A Roma”, mi dice, “l’orchestra mi chiama il mago“. Si compiace di questa definizione, la ripete con la ingenuità del ragazzo che mostra una buona pagella, mescolando riso e tosse. Un uomo non facile da capire, l’amabile sir John. Non te lo spiegano gli amici del musicista, quelli che lo conoscono da vicino, i quali perlopiù mettono in luce la sua arguzia non corrosiva, che è soltanto un tratto di carattere, o, se vogliamo, una maschera. Certo non ha il cipiglio altero da direttore del podio, gli occhi lampeggianti di un Toscanini. Eppure all’orchestra riesci a comunicare ciò che vuole, in una sorta di trasfusione di linfa vitale che rinsanguano capacità di interpretative sfibrate dalla “routine”. Una volta, in Svizzera, gli capitò di dirigere l’orchestra in un festival, formato da tutti i migliori elementi dei complessi sinfonici elvetici. Domandò gli orchestrali quale lingua preferivano che parlasse: inglese, francese, italiano. Uno rispose per tutti. Gli disse: “Maestro, basta guardarla”. Secondo il giudizio di sir John non si impara a dirigere e non si insegna. “Io dico sempre ai giovani che incontro in giro per il mondo e che verrebbero da tutti i Paesi per studiare con me: se un giorno vi trovate a Londra, vi faccio assistere alle mie prove e così, senza pagare un soldo, se avete talento imparerete a dirigere. Io stesso incominciai senza alcun esperienza, mi buttai “.
Quando Barbiroli dirige, i critici lasciano da parte la parola, “tecnica” e parlano di “suggestione”. Certo, fra le mani del musicista inglese l’orchestra ha una saldezza, una intensità, una qualità tutta nuova. Sembra che si instauri negli ampi spazi della grande orchestra sinfonica un nuovo rapporto tra strumento e strumento: le distanze si riavvicinano, i legami si stringono, una singolare intimità consacra una parentela da quartetto: “Forse”, afferma Barbirolli, “Mi è stata utile in questo senso la musica da camera che ho eseguito per tanto tempo. A dodici anni suonavo già tutti i quartetti di Beethoven. Non c’è scuola migliore, penso, per imparare a bilanciare l’orchestra. Credo proprio sia questo: comunque l’arte di un direttore non è spiegabile a parole. Per esempio, in una determinata orchestra si hanno ottanta o novanta persone: gli strumenti sono gli stessi, i musicisti anche. Eppure ogni direttore ottiene un suono diverso da quello degli altri suoi colleghi. Dirigo ogni anno i Berliner Philharmoniker, una bellissima orchestra, e molti che mi ascoltano parlano del suono Barbirolli e dicono: Ecco, non lo risentiremo più finché lui non tornerà. Ma io non so come faccio “.
Durante le prove di Aida, a Roma, al tenore Gianfranco Cecchele che interpretava Radamés e che faceva squillare la voce come le trombe della marcia trionfale si dice che Barbiroli abbia detto: “La prego, canti più piano, altrimenti in sala non la sentiranno “. E il tenore, replicando all’apparente “boutade”: “Maestro, con gli altri direttori sono obbligato a cantare forte, perché mi sommergono punto con lei è diverso: lei virgole rispetta la voce “. Il ripudio del “Kolossal”, anche nelle opere monumentali: forse questo, uno dei segreti dell’orchestra di Barbirolli. “Quel terzo atto dell’Aida”, dice il maestro, “che bellezza, che miracolo! Che poesia!”.
È da credere che proprio da qui, da questo amore, sia venuto il miracolo di un’Aida in cui una mano distillatrice dei dettagli più significativi riusciva a cogliere la verità di una opera troppo spesso abusata. “Un direttore d’orchestra deve essere un insegnante prima di tutto, deve far suonare la gente chiedendo ad essa ciò che sa fare e non di più. Mai strillare ai musicisti, mai renderli nervosi”. Sembrano i precetti di un buon maestro di scuola: invece con queste parole Barbirolli vuole dire che di aver inteso che la musica non può nascere da un cuore irritato.In Italia sir John tornerà. Presto, pare, a dirigere l’Otello, un’opera che inciso recentemente con la New Philharmonia di Londra. “Otello è un capolavoro, un modello esemplare, un dramma perfetto: non si fanno tagli, nulla. Ah, ricordo, quando ho registrato l’opera l’agosto scorso, i tecnici alla fine del quarto atto, erano commossi…”. A questo alto grado di commozione che è la temperatura stabile dell’arte di Barbirolli, si può raggiungere per raccoglimento, attraverso il silenzio. “Quando tutti tacciono, dice sir John, soltanto allora, può cominciare il discorso ineffabile della musica”. (“Il mago Barbirolli, suggestiona l’orchestra” di Laura Padellaro, 1968)