Mario Del Monaco (1915-1982)

Mario Del Monaco (Firenze, 27 luglio 1915 – Mestre 16 ottobre 1982)
Ascoltando “Cielo e mar” o “Quando le sere al placido” avremmo soltanto in parte sentore di cosa sia stata la vocalità bronzea quanto di legante di un tenore che non esito a definire personale e, in certo senso, strano. Oppure l'”Arretez mes freres” dal Sansone e Dalila ce lo proporrebbe in ruolo eroico che costituì, assieme e dopo l’Otello, uno dei banchi di prova più ardui e qualificanti. Ho definito Del Monaco “personale” e “strano” perché in lui convivono, in pari misura, l’ancoraggio ad una ben precisa tradizione (quella del Martinelli e dei Merli, per intenderci) e l’intento di colorire di vigorose quanto disinibite drammaticità i personaggi interpretati. Forse proprio la sua dirompente è quasi scarna violenza a fare un interprete personale, lasciandosi alle spalle e le convenzionali tecniche di tradizione (attacchi e, smorzatura e, portamenti), ed i più sottili psicologismi proprio del canto dell’ultimo dopoguerra, che trovano nella varietà dei colori il loro veicolo più o meno infallibile.

Il canto di Del Monaco è uno di quelli che si accettano in blocco in blocco si rifiutano, anche se, ad orecchio che intenda, il rifiuto non pare né facile né giustificato in ogni sua motivazione; non è il canto del tenore fiorentino la riproposta, in chiave moderna, dello stile verista; né il  suo canto si qualifica quale squisitamente romantico. Del verismo gli mancano (felix culpa!) il ridondante quanto sguaiato martellare e il fraseggio lacerato o lacrimoso; del romanticismo, certamente non furono sue caratteristiche né l’ambigua morbidezza né l’iperbolico gioco cavalleresco, benchè egli conosca l’abbandono al flusso irresistibile della musica, ma più ancora la vocazione al dramma scultorialmente delineato.
Ecco perché il suo Ernani fiorentino, nella memorabile esecuzione di Mitropoulos, resta un episodio, indicativo e squisitamente significante, e pur sempre un episodio. Perché se la sua vocazione fosse stata rivolta altrove, I Duchi di Mantova, gli Alfredi e anche i Rodolfi e i Pinkerton sarebbero restati più a lungo nel suo pur ricco repertorio; ma la cura estrema della figurazione scenica (costume, gesti, persino sguardi) non sarebbe stata tale.
C
‘è forsi chi rimpiange che la sua voce, all’inizio lirica e svettante, non abbia seguito quel l’iter naturale che le sarebbe dovuto essere proprio; ma c’è da obiettare che, allora, forse, non avremmo avuto in lui il personale attore-cantante che tutti abbiamo ammirato, a volte entusiasticamente.Togliamogli, insisto, certe violenze negli attacchi e ci ritroviamo il tenore che ha prosciugato la tradizione delle lacrime di Gigli. E forse allora il termine espada sarebbe stato giocoforza rimesso in auge, a dispetto anche di una musicalità monocorde. (Da “Le Stirpi canore” di Angelo Sguerzi, 1978)