Gianandrea Gavazzeni (Bergamo, 27 luglio 1909 – 5 febbraio 1996)
La carriera musicale di Gianandrea Gavazzeni cominciò, forse, il giorno in cui fu maestro di quarta elementare assegnò alla scolaresca per una composizione di italiano, Il tema “Sì trovaste per strada borsellino pieno di denaro, che cosa ne fareste? “, e il futuro direttore d’orchestra scrisse: “lo consegnerai all’ufficio oggetti smarriti” punto e basta. “Ah!”, tuonò l’insegnante:”lo consiglieresti all’ufficio oggetti smarrit! Non a un povero. Tutti così, voi figli di borghesi!”. E Gianandrea Gavazzeni, figlio di un borghese, avvocato bergamasco e deputato al parlamento per il Partito Popolare, troncò ingloriosamente, con una bocciatura, la sua vicenda scolastica. La riprese, più tardi, con la prima ginnasio, e avrebbe corso il gravissimo rischio di continuarla fino in fondo se una pleurite (“provvidenziale“, commenta) non si fosse assunta l’onere di togliere il giovanissimo Gianandrea dalle declinazioni latine per restituirlo integralmente allo studio – da qualche tempo avviato – del pianoforte. Siamo nel 1920; l’anno dopo Gavazzeni dodicenne, spinto da Marco Enrico Bossi, organista e compositore, entrava all’Accademia di Santa Cecilia a Roma. Inevitabile: perché suo padre, da quell’insensibile borghese che doveva essere secondo il maestro elementare – oltre che a restituire all’ufficio oggetto smarriti i borsellini eventualmente trovati per strada, gli aveva anche insegnato, senza accorgersene, ad amare la musica. Come lui stesso l’aveva amata e l’amava, da vero e proprio cultore, ad onta degli impegni forensi e politici. Non per niente, appena il Parsifal di Wagner, superato dal vincolo trentennali di Bayreuth, era stato portato alla Scala da Tullio Serafin e qui replicato ventisette volte, per ventisei l’onorevole avvocato Gavazzeni era regolarmente sceno in treno da Bergamo a ascoltarlo.
Certo non metterebbe conto di andare tanto indietro nel tempo, per parlare del grande direttore che oggi è Gianandrea Gavazzeni, se non fosse lui stesso ad animare con vivacità la sua conversazione, tutta fiorita di ricordi e di un linguaggio elegante. (…)
La casa, stratificata di secoli, che egli abita, su a Bergamo alta, è in qualche maniera lo specchio di questa sua condizione di spirito. Tante belle cose senza ostentazione, tante cose semplici segnate di raffinatezza; e i libri, spadroneggianti, che danno subito l’idea di una ricerca minuziosa è di una disposizione amorevole. Gli unici fuori di vista, addirittura nascosti, sono i libri scritti da lui, e sono parecchi: studi, saggi, memorie. Musica e non musica. Ne sfoglio uno a caso: parla di Cinquandò, come si chiamava la casa del nonno Gavazzeni, in collina. E a questo luogo Gavazzeni ha dedicato tre concerti, con l’ultimo dei quali nel 1949 ha chiuso irrevocabilmente la sua attività di compositore che pure se era fregiata di non pochi successi. Perché? “Nell’abbandono si incontrarono due cause. Il sentire spaesata la propria musica dalla realtà musicale odierna senza poterne o volerne comporne altra diversa. La causa pratica, cioè il sempre maggiore impegno richiesto nella direzione orchestrale così il progressivo disinteresse al comporre provoca una maggiorazione altrove punto…Sono incapace di seguire le nuove tendenze; e ove ne fossi capace, sarei disonesto”. Poi, con sottile ironia: “Non amo le avanguardie, ma rispetto i loro ordini. Obbedisco alle cartoline precetto….”
D’altronde c’è un modo penetrante e sincero di dirigere la musica altrui, per cui quella musica diventa propria: “Quando dirigo mi sento autore”: è una passione è una confessione che Gavazzeni rende con estrema semplicità. “Mentre ricordo un episodio di alcuni anni or sono: salgo sul podio per cominciare una prova e sento che uno dei professori sta suonando qualcosa. “Lo conosce, maestro?” mi domanda. No, non lo conoscevo ed era l’inizio del mio Concerto per violoncello”.
L’opera che stava per provare in quell’occasione, era la Kovancina una delle passioni, di fronte alle quali mai potrebbe pensare a se stesso. La diretta recentemente alla Scala; e il regista russo Tumanov, gli ha detto: “Voi dovete essere figlio naturale di Mussorgsky”. Anche in questa afffinità c’è la traccia di una remota connessione culturale. “Fra i quindici e i venticinque anni ho letto tutti i grandi narratori russi. Adesso è venuto il momento che risento il bisogno di Dostoevskij”. E denuncia a questo bisogno con l’accento che un qualunque buongustaio bergamasco userebbe per annunciare di aver voglia di una qualche prelibatezza. Dostoevskij, dunque è già prenotato nella valigia-biblioteca ormai pronta per il prossimo viaggio al Colón di Buenos Aires: più di due mesi per Faust, Don Carlo e Aida. (estratti da “Una bocciatura fu la sua fortuna” di Carlo Maria Pensa, Bergamo, 1971)