Ebe Stignani (Napoli, 11 luglio 1093 – Imola, 6 ottobre 1974)
(…)Mezzosoprano, quando proprio il distacco tra lei e le altre era indiscutibile. Erano i tempi in cui il gesto è il grido verista (tra gli anni ’20 e ’30) dettavano ancora legge ed esigevano da tutti, oltre che voce generosa, interpretazione fervida, appassionata e non di rado sanguigna., è vero tuttavia che è più coinvolti erano i soprani e i tenori drammatici e i lirici assieme al baritono, cui si chiedeva protervia e muscolosità vocale.
Il mezzosoprano e il basso restavano parzialmente fuori da queste esigenze perentorie, ma va detto che una Carmen e un Mefistofele, ad esempio, non potevano eludere certe crudezze e certi atteggiamenti istrionici ormai comunemente accettati e richiesti. (…)
Ebe Stignani, sfuggi a questo gusto. Prima d tutto aveva prima di tutto avuto il dono di una voce dal timbro, forse chiaro per un mezzosoprano-contralto, ma intenso, fresco e dallo smalto sovranamente dorato. L’estensione non era da meno, superando le due ottave. La ricchezza degli armonici, l’intonazione, lo squillo vittorioso completavano il quadro. A ciò si aggiunse un’impostazione perfetta è un emissione centrata in ogni nota. Evocare il suo legato significa stupire davanti a una colata di voce tanto smagliante quanto compatta; la leggerezza dell’emissione, che rendeva un suono così poderoso, soffice come un velluto, va ricordata come uno di quei rari fenomeni che contrassegnano appunto in massimo tra i cantanti. (…)
Chi si fosse aspettato da lei una Azucena fosca, impressionante, o Amneris serpentina sarebbe stato certamente deluso. Al centro di ogni suo interesse musicale furono lo stile, sorretto da una lettura mai deformata, ma vivida di ogni annotazione musicale, e il gusto, sorvegliato da una concezione plastica e classica dell’arte del canto. Tale appariva in Sansone e Dalila dove prodigava con sapienza tutti i registri, tutti i colori, tutto il pathos emanante dalla sua voce; ed è proprio quest’ultimo nella sua solennità, nella sua morbidezza, nella sua beatitudine che la trasformò in un Orfeo di impressionante plasticità.
La sua voce ammansiva davvero le fiere e nulla concedeva, nell’opera, a passionalità romantiche; perciò quei critici che, credendosi magari sacerdoti del belcantismo, le rimproverano tuttora assenza di temperamento, non si accorgono che il termine odora molto sospettosamente di umori veristi, e che il sommo mezzosoprano ha invece collocazione altrove in un’area del tutta estranee al gusto introdotto della giovane scuola. La Stignani sapeva benissimo, ad esempio, che Mignon è tutta pregna del dolce miele francese e che Azucena doveva rispettare il dettato musicale della parola drammatica. E se questa fosse apparsa più nitida, il quadro presenterebbe i caratteri della unicità. (Testo estratto da “Le stirpi canore” di Angelo Sguerzi, Bologna, 1978)