Richard Wagner (1813 – 1883): “Die Feen” (Le Fate, 1888)

Opera in due atti su libretto proprio, da “La donna serpente” di Carlo Gozzi. Prima rappresentazione: Monaco, Hoftheater, 29 giugno 1888.
Preceduta solo da lavori di minimo conto (fra i quali una curiosa Ouverture dei colpi di grancassa: dove questo “leggiadro” strumento faceva sentire la sua voce, ogni 4 battute, per tutta la durata del pezzo), l’opera Le fate è la prima fatica teatrale di Richard Wagner; ultimata nel 1834, quando il compositore aveva appena 21 anni, ma la sua prima esecuzione avvenne solo nel 1888, cinque  anni dopo la morte del compositore.
Questa mancata esecuzione non trova, nelle pagine autobiografiche del musicista, un riscontro  di delusione; ma il fatto è che, l’autobiografia wagneriana scritta dopo la formazione di quell’autocoscienza artistica che, nel compositore, non produsse mai un vero e proprio  esame autocritico, con la  numerazione dei difetti che  un giovanissimo Wagner poteva anche avere. Wagner, del resto, era convinto di “incarnare la coscienza  della cultura germanica”; in lui,  innovazione e tradizione si fondevano, dando vita al massimo fenomeno musicale mai esistito, al più profondo  atto sintetico e totale senza precedenti. Con questo pensiero, se manca, nell’autobiografia un riscontro deluso o  irato, forse l’opera d’esordio – secondo il suo parametro -non doveva poi considerarla un capolavoro. Le fate  è l’opera di un ventunenne a maturazione lenta: di chi poteva mostrare ben poco di quello che sarebbe stato in avvenire.
La trama “fantastica”  – tratta da La  donna serpente di Gozzi si riallaccia quel filone che aveva avuto i suoi massimi esempi  a partire dal  flauto magico e successivamente nel Franco cacciatore. Aridal (tenore) è, da otto anni, marito di Ada (soprano): marito per modo di dire, dato che l’amata ricambierà il suo amore solo se egli riuscirà a superare prove particolarmente gravose. Aridal non è un mostro di bravura e di solerzia. Morale: Ada diventa di pietra, e tale resterà per cento anni se il marito non sarà capace di liberarla. Con un trapasso psicologico rapido, Aridal diviene un eroe e, in quattro e quattr’otto, travolge tutti gli ostacoli che lo separavano dalla sua Ada.  Nel  coro finale, con convinta soddisfazione si proclama: “S’è conquistato un altro destino / S’è sottratto alla polvere alla terra / Sia perciò cantata in eterno / L’alta felicità che gli ha dato l’amore”.

Parlando di quella “polvere della terra” di certo non si parla di processi di “rigenerazione morale” o di “ascesa mistica”: una frase messa lì, elemento “decorativo”, espressione di una cultura ancora nettamente in formazione,  dal momento che lo stesso Oberdorfer (uno dei più intelligenti ed eleganti studiosi di Wagner) qualifica il libretto delle Fate, come “roba fuori di moda è un po’ stantia”. Le Fate, quindi, è il primo gradino  di un processo formativo che solo nel 1840 (Rienzi) e soprattutto nel 1843 (Olandese volante), avrebbe cominciato a produrre dei risultati veramente significativi.

“Musicai il libretto”, scrive Wagner, “in base alle impressioni lasciate in me da Beethoven, da Weber e da Marschner “: sono – e facciamo ancora nostro il giudizio di Oberdorf –  impressioni azzardate, reminescenze che il giovane Wagner ricalcava più per amore di capziosità e di  sensazionalismo armonico, che di altro: prova ne sia il fatto che l’opera successiva – Il divieto d’amare – è nettamente orientata verso lo stile francese, il che consentirà di rinvenire, in essa, un chiaro segno premonitore dello stile più maturo del compositore.
Di quello stile in cui i grandi maestri tedescchi saranno, sì, di nuovo presenti, ma stavolta in una dimensione profonda, motivata e responsabile. Un tentativo d’esordio di un giovane mai, in fondo, tale, cioè mai immediato; una tappa che serve, indirettamente, a meglio comprendere la futura  struttura meditativa del “grande Wagner”;  sono motivi  che possono benissimo giustificare  l’ascolto attento, attentissimo, per capire Le Fate.