Marco da Gagliano (1582-1643): “La Dafne” (1608)

Nel gennaio 1608, nella cornice delle sfarzose feste di carnevale, la splendida società della corte di Mantova assisté alla prima rappresentazione di un’opera nuova: la favola “Dafne” di Marco da Gagliano. Il compositore, già noto per una serie di libri di Madrigali, veniva da Firenze dove svolgeva l’attività di maestro di cappella nella chiesa di San Lorenzo. Venne a contatto con la corte di Mantova grazie al giovane Cardinal Gonzaga, che aveva assunto Il patronato di una società musicale-letteraria che Gagliano aveva fondato a Firenze poco tempo prima. Questa società nominata “Accademia degli elevati” era, in certo modo, la sorella più giovane della celebre “Camerata dei Bardi”, quel circolo di studiosi ed artisti che, corrispondentemente all’idea umanistica, voleva richiamare in vita nel mondo presente il dramma greco.Come frutto di intense discussioni teorico-estetiche, unite a studi pratico-musicali, nacque come è noto il nuovo genere: l’opera. Uno dei temi preferiti del primo periodo fu lo strano mito di Dafne, che sfuggendo l’amore d’Apollo, chiamò in aiuto il padre Peneo, dio dei fiumi, e immediatamente fu trasformata in albero d’alloro. Ottavio Rinuccini, che era pure membro della “Camerata dei Bardi” aveva dato a questa leggenda la forma poetica in cui fu musicata da prima nel 1594 da Jacopo Peri e Giacomo Corsi (ne sono rimasti solo dei frammenti) e nel 1602 da Giulio Caccini. La composizione di Marco da Gagliano fu dunque la terza messa in musica del libretto di Rinuccini, modificato dal poeta per la nuova versione musicale mantovana. Con la composizione della sua prima opera “Dafne” Gagliano si presentò non solo ad un pubblico splendido, ma anche ad un pubblico straordinariamente critico. Infatti Claudio Monteverdi era il compositore di Corte dei Gonzaga. Un anno prima aveva avuto luogo  la prima rappresentazione del suo “Orfeo”. Anche la “Dafne” di Gagliano ebbe grande successo da parte del pubblico e l’applauso dei conoscitori. Così scrive Jacopo Peri al Cardinal Gonzaga: “La Dafne di Gagliano è composta con straordinario senso artistico e supera senza dubbio tutte le altre composizioni della stessa opera (dunque anche la sua).” “Poiché la maniera di comporre musica per il canto del signor Marco è la più adatta e si avvicina al tono parlato più di quella di ogni altro eccellente musicista “. Già nell’ ottobre 1608 la nuova opera fu stampata a Firenze da Marescotti. Questa edizione a stampa è un documento di grande valore. Gagliano ha scritto una prefazione alla sua opera, nella quale vi sono preziose informazioni sulla prima rappresentazione mantovana, sulla distribuzione delle parti, sulla tecnica della scena, sulla regia e anche dati precisi sugli usi dell’esecuzione vocale.

La giovane cantatrice di corte Caterina Martinelli( l’Arianna di Monteverdi) cantò la parte del titolo e anche quella di Venere (erano in uso le parti doppie). Francesco (l’Orfeo di Monteverdi) cantò la parte di Apollo e la parte del Nunzio (Tirsi) fu eseguita dal contralto fiorentino Antonio  Brandi. Per il cantante della parte di Apollo, Gagliano raccomanda poi di farlo sostituire  nella scena del drago da un ballerino o uno “schermitore”. Le indicazioni della regia, contenute, nella prefazione, ci fanno vedere dettagliatamente, come erano stabiliti il corso della scena, i gesti e le illusioni acustiche:“Quando Apollo pronuncia il verso “Faran ghirlanda le tue fronde e i rami virgole” avvolgasi quel ramoscello d’alloro, sopra il quale si sarà lamentato, intorno alla testa, incoronandosene; ma perché qui è alquanto di difficoltà, voglio facilitarvi il modo per fare questa azione con garbo punto. Scelgasi due ramoscelli dall’alloro eguali, non di più lunghezza che di mezzo braccio., e congiungendoli insieme leghinsi le punte, e con la mano tenga uniti i gambi, di maniera che appariscono un solo.  Nell’atto poi di volersene coronare, spiegandoli, se ne cinga il capo, annodando i gambi insieme. Ho voluto scrivere questa minuzia, perché  è più importante ch’altri non pensa: e benchè  paia così agevole, non fu però così facilmente  ritrovata., anzi, più volte nel recitarla s’era tralasciata tale azione, come impossibile a farsi bene, ancorchè molti ci avevano pensato, perciocchè il vedere in mano d’Apollo un ramo d’alloro grande fa brutta vista, oltre che malamente può farsene corona per non essere pieghevole., e il piccolo non serve. Queste difficoltà furono superate da Messer Cosimo del Bianco, uomo oltre al suo mestiere diligentissimo, e di grande invenzione per apparati, abiti e simili cose “.
“Non voglio anche tacere che dovendo Apollo, nel canto dei terzetti “Non curi la mia pianta o fiamma o gelo”, recarsi  la lira al petto (il che debba fare con bella attitudine), ed è necessario far apparire al teatro che dalla lira d’Apollo esca melodia più che ordinaria, però pongasi quattro suonatori di viola (a braccio gamba o poco rilieva)  in una delle strade più vicina, in luogo dove non veduti dal popolo, veggano Apollo, e secondo ch’egli pone l’arco sulla lira, suonino le  tre note scritte, avvertendo di tirare l’arcate pari, acciò apparisca un arco solo. Questo inganno non può essere conosciuto se non per immaginazione da qualche intendente “.
Gagliano ripete sempre che le “molte fioriture, i gruppi e i trilli non devono sembrare aggiunti, ma sorgere dalla monodia come espressione naturale”. Gagliano da indicazione precise sull’impiego è l’entrata in scena del coro. Il numero dei coristi deve variare seconda la grandezza della scena, ma, secondo la sua opinione, dovrebbero consistere di “non meno di 16-18 persone “. Soltanto su un punto non il compositore non ci da chiarezza, e precisamente sulla questione della strumentazione. Gagliano ne parla solo in maniera affrettata. Accenna alle viole (vedi sopra) e desidera, prima dell’ aprirsi del sipario di “una sinfonia con diversi strumenti che vengono usati come accompagnamento del coro e per suonare ritornelli”. Di quali strumenti si tratti non si sa né della partitura né dalla prefazione. Si punta così a un’orchestra simile a quella che Monteverdi ha usato per le scene dei pastori dell’Orfeo.Poiché la sinfonia manca nella partitura e non se ne trova traccia , si utilizza altra musica di Gagliano.
In allegato il libretto dell’opera

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