Esiste l’opera in musica “dialettale? Non intendiamo, riferirci a opere realizzate musicando libretti in dialetto; in tal caso la risposta non potrebbe essere che affermativa: la storia dell’opera comica settecentesca è piena di melodrammi su libretti in dialetto.Intendiamo, invece, riferirci proprio alla musica: una musica che si dovrebbe definire “dialettale” in quanto intrisa di accenti, motivi, ritmi strettamente legati al canto popolare italiano. Se all’ interrogativo, dopo aver approfondito la questione, si dovesse dare risposta affermativa, forse persino un’opera come la Cavalleria Rusticana di Mascagni, dove le inflessioni melodiche popolaresche sono così frequenti, potrebbe essere inclusa nella categoria dell’opera “dialettale”. Occorre appena aggiungere che tale “etichetta” non significherebbe per nulla negativa ma soltanto una migliore valutazione e classificazione. Al teatro in musica “dialettale” potrebbero venire attribuite parecchie opere di Wolff-Ferrari., non soltanto perché questo compositore abbia spesso musicato testi in dialetto, ricavati da commedie di Goldoni, ma appunto perché – pur nella straordinaria eleganza formale e di scrittura – esse rivelano spesso un’ispirazione volutamente popolaresca e specificatamente veneziana.
Wolff-Ferrari era figlio d’un tedesco e d’una veneziana. Fu educato alla musica in Germania, dopo di che riuscì a vincere i dubbi del padre che lo voleva avviato a quell’arte che egli stesso praticava: la pittura, ma di Venezia e del suo incanto lagunare. Nelle sue opere di soggetto goldoniano accolse tanti echi delle canzoni veneziane da riempire le partiture, come “Addio cara Venezia” del Campiello. Proprio attraverso le sue impressioni di “musica dialettale”, l’arte di Wolf-Ferrari realizza il profumo poetico che si sprigiona da tante sue partiture: una condizione di nostalgia, un dolce rimpianto del passato, un accorato richiamo a tempi a luoghi lontani. Con nessun soggetto il compositore doveva dare prova altrettanto vitale che con I Quatro rusteghi. Già i quattro personaggi goldoniani, infatti, non sono tanto dei” brontoloni” per partito preso quanto dei nostalgici, degli inguaribili amatori del dolce tempo che fu. Wolf-Ferrari proprio momento in cui la musica italiana tendeva a farsi, da nazionale a europea, non poteva amare e cantare la nostalgia di quei suoi personaggi meglio che rifugiandosi in una condizione musicale “dialettale” . Il centro focale di questa opera, il suo autentico nucleo d’ispirazione, sta nel accento “veneziano”. Wolf-Ferrari aveva lungamente studiato e è appreso con intelligenza la lezione del Falstaff verdiano, di quel Falstaff la cui partitura egli considerava come il vangelo del musicista contemporaneo. Ora, la grandezza del Falstaff è tutta nella virtù dell’accento., la musica insegue e illumina il testo con accento rivelatore. Wolf-Ferrari applicò la lezione al suo caso particolare, ch’era il caso della commedia goldoniana: “rusteghi”, “siòre”, e Lucieta e Filipeto, i due “furbeti” così adorabilmente ingenui. Il garbo, la lieve leziosaggine, le sdolcinature, il cantar sonoro ed elegante della “ciàcola” veneziana, Wolf-Ferrari li illuminò di musica, trovando gli accenti giusti, esteticamente veri, a volte appena ironici, anche derivati dall’onomatopea imitativa del “rifare il verso” con grande eleganza. Il “settecentismo” di Wolf-Ferrari è pura apparenza: si traduce nel colore della nostalgia. Per questo Wolf-Ferrari, nei Rusteghi è prima di tutto se stesso. Non lo si potrebbe confondere.
In tutta la partitura scintillante di caratteri umani, palpita dunque la malinconia autunnale di Venezia., insieme con l’equivalente musicale di tutta la bonarietà di un dialetto al quale si legano ritmi ondulanti di Barcarola e -come se sorgesse da una “calle”, cantata da una “puta amorosa” – risuona la Canzonetta “El specio me ga dito che son bela…” proposta con lieve malizia da “siòra” Marina, diviene l’indimenticabile “tema cardine” di tutta l’opera. Quando al termine del primo atto Wolf-Ferrari fa di questa melodia il filo d’argento di un brano per sola orchestra, ottiene il miracoloso effetto di evocare alla nostra mente tutto l’incanto dolce e patetico della laguna. Aggiungete a ciò la grande finezza d’orchestrazione di Wolf-Ferrari la sua abilità nel trattare le voci, la solida architettura che sostiene i frequenti “concertati”, e avrete tutte le ragioni per cui I quatro rusteghi hanno deliziato e continueranno a deliziare gli ascoltatori. Fra le pagine più ricordate, oltre alla già citata canzone di Marina, l’aria di Filipeto “Lucieta xe un bel nome”, l’aria di Lucieta “Beata chi pol goder la vita”, il finale del secondo atto (detto della “baruffa”), il terzetto dei tre bassi nell’ultimo atto.
In campo discografico, vi segnaliamo la rcente registrazione pubblicata dall’etichetta Rubicone. Vasily Petrenko, a capo della Royal Philharmonic Orchestra, ci offre una fresca e accurata lettura, sempre attentissima a non soverchiare il canto nel suo carattere discorsivo, colloquiale, nel contempo Petrenko ne sa esaltare il ritmo e gli squarci lirici. Complessivamente valida la compagnia di canto nel caratterizzare i personaggi.
In allegato il libretto dell’opera