Robert Schumann (1810 – 1856): “Szenes aus Goethes Faust” (1853)

Oratorio in tre parti su testi tratti da “Faust” di Johann Wolfgang von Goethe. Roman Trekel (Faust/Doctor Marianus), Elsa Dreising (Gretchen/ Una Poenitentium), René Pape (Mephistopheles/Böser geinst/Pater Profundus), Katharina Kammerloher (Marthe/Sorge/Mater Gloriosa), Evelin Novak (Not/Magna Peccatrix), Adriane Queiroz (Mangel /Mulier Samaritana), Natalia Strycka (Schuld/Maria Aegyptiaca), Stephan Rügamer (Ariel/Pater Ecstaticus), Gyula Orendt (Pater Seraphicus). Attori: André Jung (Faust), Sven-Erich Bechtolf (Mephistopheles/Lieschen), Meike Droste (Gretchen/Engel), Ana Tomowa-Sintow (Zeignun). Staatsoperchorn Berlin, Martin Wright (Maestro del coro), Staatskappelle Berlin, Daniel Barenboim (direttore). Jurgen Flimm (regia), Markus Lüpertz (scene), Ursula Kudrna (costumi).Registrazione. Staatsoper Berlin 3 ottobre 2017. 1 DVD Arthaus Musik NTSC109418

La riapertura – dopo un lungo restauro – della storica sede della Staatsoper di Berlino ha rappresentato uno degli eventi culturali più significativi vissuti dalla Germania negli ultimi anni. La scelta del 3 ottobre – festa dell’unificazione e quindi ricorrenza condivisa sostanzialmente da tutti i tedeschi – rafforzava ulteriormente l’importanza anche simbolica dell’evento sancita dalla presenza di tutto il gotha istituzionale del paese a cominciare dalla Cancelliera Angela Merkel.
In questo senso la scelta di allestire un lavoro ispirato al mito di Faust – che della cultura germanica è forse l’archetipo più profondo – può essere comprensibile. Scegliere un titolo come le “Szenes aus Goethes Faust” presenta più di una difficoltà. Il lavoro che accompagna la vita di Schumann per quasi dieci anni tra il 1844 e il 1853 fatto di slanci e stasi, ripensamenti e correzioni ha la sua più profonda ragione d’essere nel rifiuto della componente teatrale. Schumann portando avanti una concezione particolarmente radicale del romanticismo – accomunato in questo dal solo Berlioz – immagina una nuova idea di teatro dove alla musica e alla parola sia affidato il compito di evocare nell’anima dell’ascoltare il contesto ambientale. Un teatro di sogni e di idee che, per proprio fondamento,  rifiutava l’allestimento teatrale – legato ad un disprezzato artigianato  teatralerezzato – per puntare a una suggestione più elevata.
Evidenziata questa concezione,  che  dovrebbe invitare ad evitare di mettere in scena certi titoli, ancor  più se lo spettacolo in questione  risulta totalmente stridente con lo spirito della composizione. Il regista Jurgen Flimm decide di ovviare alla natura volutamente rapsodica e antiteatrale delle scelte schumaniane inserendo lunghe sequenze recitate tratte dal dramma di Goethe che nonostante la bravura degli attori – Sven-Eric Bechtolf (Mephistopheles), André Jung (Faust) e Meike Droste (Gretchen) – non aggiungono nulla al lavoro ma lo appesantiscono non poco specie per un pubblico non perfettamente in grado di padroneggiare la lingua.
L’impianto scenico creato da un artista particolarmente in voga in Germania come Markus Lüpertz era stato originariamente pensato per la nuova opera di Wolfgang Rihm “Saul” rimandata al 2021 e quindi recuperato per l’occasione. La cosa è la miglior testimonianza di come molto teatro di regia viva in una dimensione di assoluta auto-referenzialità totalmente scissa rispetto alle ragioni del titolo rappresentato tanto che lo stesso allestimento può essere utilizzato indifferentemente per titoli diversi non avendo nessun legame con essi. La coloratissima scenografia di sapore quasi picassiano tradiva in qualche immagine di sapore pastorale l’originaria destinazione ad illustrare il mito di Davide ed era dominata da due grandi statue e da altre teste che ricordano da presso le ceramiche del maestro spagnolo. I costumi – bruttini – rievocano con taglio pesantemente parodistico l’epoca di Goethe con improvvise e abbastanza incomprensibili incursioni nella nostra contemporaneità.
Le regie di Flimm si sono spesso distinte per un taglio pesantemente grottesco e questa non fa eccezione. Sovraccarica, pesante, poco scorrevole,  si bea di poco felici colpi ad effetto – i  rifiuti che cadono sulle due Margherite al termine della scena di Ariel, il Pater Seraphicus che chiude la scena degli anacoreti decapitando una pecorella di cartone portata da Mefistofele, Margherita-penitente in versione bambola,  fin troppo simile all’Olympie di Offenbach – confusa nel racconto e nella caratterizzazione dei personaggi culminante e nella caotica e mal gestita ridda finale.
Fortunatamente le cose vanno molto meglio sul versante musicale. Daniel Barenboim è nel suo elemento naturale e si sente. La sua è una lettura nobilissima, aulica, dai tempi distesi e dalle sonorità calde e avvolgenti. Barenboim da alla partitura un taglio drammatico e molto teatrale senza mai perdere d’occhio la cura per i dettagli e con un’attenzione al canto che spesso non gli abbiamo riscontrato nel repertorio italiano. La Staatskappelle Berlin non è alla strepitosa altezza della Philarmonica cittadina ma è una compagina di notevole livello e risponde perfettamente alle richieste del direttore così come ottima è la prova dello Staatsoperchor impegnatissimo dalla scrittura spesso oratoriale di Schumann.
Roman Trekel è un baritono di taglio lirico che fa del bel colore vocale e della nobiltà di canto le sue cifre caratteristiche. Linea curata e musicale, ottima dizione, acuti facili, emerge soprattutto nel nobile lirismo delle scene con Margherita e nello stupore del monologo della primavera. Meno sicuro nel registro grave e  di un autentico temperamento drammatico si scompone un poco nella scena della morte e manca un po’ di autorevolezza negli interventi del Pater Marianus del finale pur cantando in modo più che apprezzabile.
René Pape è un lusso fin eccessivo per la parte in fondo breve di Mephistpheles  e fa risaltare il personaggio come raramente ascoltato – nonostante l’assurdo trucco apparentemente ispirato al Beetlejuice di Tim Burton – e affronta con ieratica grandiosità il monologo del Pater Profundus. Angelica nell’aspetto e nel canto Elsa Dreising è una Gretchen  di radioso lirismo sorretto da un canto musicalissimo e di naturale eleganza. Katharina Kammerloher affascina con il timbro scuro e seducente come Marthe e scava la linea con grande intelligenza espressiva nel canto di Sorge (La Cura). Stephan Rügamer con la sua voce squillante e robusta svetta con facilità nelle alte tessiture di Arial e del Pater Ecstaticus; Gyula Orendt canta discretamente e cerca di barcamenarsi nel ridicolo trattamento imposto dalla regia al Pater Seraphicus. Tutte più che positive le parti di fianco e da segnalare il cameo della partecipazione di Anna Tomowa-Sintow come Zeignun (la personificazione della Dedizione).