La condizione di oggettiva disabitudine dei teatri italiani all’opera contemporanea è cosa nota su cui non è necessario tornare. È per questo ancora più interessante la scommessa che il Teatro Coccia di Novara sta facendo in questi giorni, portando in scena un’opera appositamente commissionata dal Teatro al Maestro Marco Podda e per la regia di Alberto Jona, dal titolo “Donna di Veleni”. Abbiamo avuto l’occasione di intrattenere una breve quanto piacevole conversazione con entrambi.
Maestro Podda, com’è nata “Donna di Veleni”?
Componevo le musiche per il centenario del Teatro Greco di Siracusa, sono venuto a conoscenza della storia di alcune maghe avvelenatrici siciliane, e ne ho trascritto un soggetto. Quando in un secondo momento a Catania ho incontrato il Direttore Artistico del Coccia e mi ha chiesto se avessi un’idea per un’opera inedita, io gli ho proposto questo soggetto e gli è piaciuto subito. Ho contattato Emilio Jona [il librettista, ndr] tramite sua nipote, che casualmente era una mia allieva: Emilio ha trasformato poeticamente il mio soggetto, dandogli una seconda vita; quando poi è tornato a me per la composizione della partitura, ho dovuto modificarlo ancora, per dargli una terza vita, che è grossomodo quella che portiamo in scena in questi giorni.
La vicenda di “Donna di Veleni” è tutto sommato semplice (un triangolo amoroso, con un twist sovrannaturale dato dalla presenza della protagonista), la durata è contenuta, ma le parti musicali sono tante, soprattutto quelle corali. Che funzione hanno tutti questi cori?
Io amo moltissimo il teatro greco, e per me il coro è un personaggio vero e proprio. Tuttavia qui ho voluto inserire, oltre a un coro scenico, anche un coro orchestrale, che sia un vero strumento musicale, e in più un gruppo di otto solisti che incarnano lo sguardo esterno alla vicenda dei protagonisti, come in un film dove si fa la carrellata su coloro che assistono a un avvenimento.
Si riferisce spesso al cinema parlando della sua musica…
Certo! Il cinema è la vera arte del nostro tempo. Abbiamo il dovere di non ignorarne le potenzialità comunicative, anche nella musica! So bene che i puristi della disgregazione subparcellare ritmica e armonica troveranno quest’opera banale, come coloro che cercano solo un impianto tonale la troveranno distorta. Invece la sfida sta proprio nell’unire le dinamiche narrative e comunicative delle soundtrack con l’operismo contemporaneo, per creare suoni nei quali l’ascoltatore si possa riconoscere.
Riportare dinamiche “filmiche” nel musica d’opera (come l’uso di cori orchestrali, e la frammentazione dei punti di vista musicali) è quindi la sua personale forma di sperimentazione?
Sì. Oggi l’avanguardia non può più nutrirsi di intellettualismi avulsi dalla vera contemporaneità: la costante ricerca di emozione e la creazione di empatia con l’ascoltatore si raggiungono, nella musica “leggera”, con l’uso dell’elettronica, ma possono essere ancora benissimo ottenute anche con l’orchestra. La musica da film racconta, accompagna lo spettatore, ne evidenzia le reazioni. Tutte cose che nell’opera sembrano rétro, ma che in effetti si sono perse lungo il XX secolo. Io tento di riproporle non in senso archeologico, ma di farle rinascere alla luce del nostro presente.
Oltre al cinema, anche il teatro di prosa ha un posto di rilievo nella sua vita.
La più importante, senz’altro. Per me non esiste differenza tra musica per il teatro e teatro musicale, se non che il primo è parlato e il secondo è cantato. Ma così come dal primo non può essere eliminata la dimensione musicale (e per questo ho spesso lavorato con registi che chiedevano grandi performance vocali ai propri attori, anche a rischio di aspre critiche), anche nell’opera non dovrebbe essere “proibita” la parola. Io amo lavorare nella prosa perché ha meno paura di una sperimentazione finalizzata alla comunicazione col pubblico. Sono felice che, invece, il Teatro Coccia abbia deciso di fare una scelta più rischiosa, rispetto ad altri teatri d’opera che avevo contattato, accettando “Donna di Veleni”. D’atronde, le prime parole di “Donna di Veleni” sono parlate, e ho voluto che fossero così, per ricordarmi da dove vengo e cosa amo.
Maestro Jona, per la regia di “Donna di Veleni” ha avuto l’opportunità non frequente di potersi confrontare sia col compositore sia col librettista, suo padre. Com’è andata?
Mi sento molto fortunato per questa opportunità, che, inevitabilmente, se si lavora su Verdi o Bellini non si può avere. Mi sono confrontato sulla drammaturgia, anche criticamente, con mio padre: ho dovuto prima comprendere a fondo quale fosse la sua idea, per poter poi costruire la mia. Lui ad esempio ha inserito la vicenda in un contesto storico molto preciso, la Sicilia del XVII secolo, con un’idea naturalista dell’impianto drammaturgico. Per me, invece, la storia di “Donna di Veleni” è assoluta, e per questo ho deciso di tendere a una regia astratta, simbolica. Per i pochi riferimenti storici presenti, come ad esempio i costumi, si è pensato a un avvicinamento alla nostra sensibilità, portandoli alla fine degli Anni Cinquanta: un periodo le cui dinamiche forse sappiamo intendere meglio rispetto al Barocco.
La più eclatante cifra stilistica di questa regia è l’utilizzo del teatro d’ombre. Com’è nata questa idea e come si sviluppa?
Venticinque anni fa ho fondato con Jenaro Meléndrez Chas e Corallina De Maria la Compagnia Controluce, che si occupa proprio di teatro d’ombre, e considerato che venivamo dalle arti figurative e dalla musica, ci è sempre parsa la cosa più naturale unire questi due aspetti. Tanto più che l’ombra, come la musica, è effimera, entrambi sono inafferrabili, si perdono; ed entrambi sanno raccontare, su livelli diversi. Non è sempre detto che tutto vada raccontato con l’ombra, altrimenti si banalizzerebbe la sua funzione. L’ombra è l’inconscio, la paura, i ricordi: quando un’opera si apre a questi aspetti, allora noi tentiamo di creare questo connubio artistico. Ci piacerebbe contribuire alla creazione di una Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, stabilendo un secondo livello di lettura. Tuttavia è importante usare le ombre con parsimonia, per non soffocare la dimensione scenica e musicale; oppure, al contrario, si può decidere di usare solo le ombre, come abbiamo fatto qualche anno fa in un “Dido and Aeneas” di Purcell, nel quale il cast rimaneva esterno alla scena. È un equilibrio affascinante, ma occorre saperlo calibrare bene: in “Donna di Veleni” ci sono solo quattro momenti in cui l’ombra interviene, ma sono momenti densi di significato.
Il teatro d’ombra potrebbe essere anche una sorta di “risposta” all’abuso di proiezioni che a volte si vede sulle scene odierne…?
Potrebbe, perché no? L’ombra è diversa dalla proiezione perché è antica, in lei giace una tradizione anche artigianale, perché l’ombra si deve fare fisicamente, non è automatica.
Infine, con che spirito, secondo lei, lo spettatore dovrebbe avvicinarsi a “Donna di Veleni”?
Il teatro è un altrove, un’altra possibilità del reale, e a me piace perdermi dentro alla scena. Lo spettatore dovrebbe lasciarsi ugualmente portar via, anche perché la vicenda, i valori dell’opera di Podda, non sono rigidi: anche il “cattivo” Ruggero, cattivo non è davvero. È un violento, incarna una mascolinità esecrabile, ma ha un vissuto, un carattere multisfaccettato; così la “vittima” Maria, in realtà, ha una grande capacità di trasformazione. Questi sono i caratteri del grande teatro, personaggi profondi in grado di coinvolgere lo spettatore. Anche Azucena o Medea sono delle infanticide, ma cosa le porta a quel gesto irreparabile? Questo è lo spirito con cui avvicinarsi e lasciarsi rapire dalla “Donna di Veleni”. Foto Finotti