Venezia, Teatro Malibran: Daniel Cohen dirige Beethoven e Alvise Zambon

Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2019-2020
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Daniel Cohen
Alvise Zambon: “Sul limitare della notte”
Ludwig van Beethoven:Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60; Sinfonia n. 7 il la maggiore op. 92
Venezia, 10 gennaio 2020
Il settimo concerto della Stagione Sinfonica 2019-2020 ha visto per la prima volta sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice Daniel Cohen, che ha affrontato un programma interamente dedicato a Ludwig van Beethoven, tranne il titolo d’apertura, legato invece alla contemporaneità: la serata, infatti, si è aperta con la prima esecuzione assoluta dell’ouverture sinfonica Sul limitare della notte, una commissione affidata al compositore Alvise Zambon nell’ambito di “Nuova musica alla Fenice”, progetto realizzato con il sostegno della Fondazione Amici della Fenice e con lo speciale contributo della Fondazione Spinola Banna per l’Arte. Seguivano la Quarta e la Settima Sinfonia di Beethoven, compositore cui è dedicato il cartellone sinfonico nel duecentocinquantesimo anniversario della nascita.
Ispirata dal mondo affascinante, ma anche – inaspettatamente – truce delle lucciole, il lavoro di Alvise Zambon allude al comportamento dei vari generi di questi insetti, ognuno – informa il compositore – con il suo preciso codice identificativo, generato da frequenza, intensità e ritmo degli impulsi luminosi. Particolarmente scabroso è il comportamento della femmina del genere Photuris, una lucciola predatrice in grado di imitare gli impulsi di altri generi per attirare il maschio (specialmente del genere Photinus) e poi ucciderlo divorandolo. Sul limitare della notte trae spunto da questo mondo di codici, ritmi, impulsi, per esplorare le possibilità offerte dallo strumento “orchestra” alla scoperta di nuovi confini musicali. Il pezzo, della durata di circa sette minuti, inizia con una brusca esclamazione dell’orchestra, per introdurci in un clima “notturno”, spesso turbato da intense ondate sonore, sottolineate dall’intervento dei timpani, che nella partitura assumono particolare pregnanza espressiva: una partitura segnata da frequenti dissonanze e dalla ricerca di combinazioni timbriche abbastanza originali, spesso screziate di colori piuttosto aspri, fino ad un progressivo scarnificarsi delle sonorità, per quanto talora interrotto da tragici sussulti dell’orchestra. Fin da questo primo pezzo il maestro israeliano si è messo in luce per il vigore che contraddistingue il suo stile interpretativo, nonché per l’efficacia comunicativa con cui si rapporta all’orchestra, che lo ha seguito con precisione e musicalità. Successo per il trentenne Alvise Zambon – veneziano, formatosi al Conservatorio Benedetto Marcello –, che si è presentato a ricevere gli applausi, indossando simpaticamente una sorta di divisa da Ussaro.
Venendo ai titoli beethoveniani, dopo aver terminato all’inizio del 1804 la Sinfonia Eroica, il Maestro di Bonn si dedicò a una nuova partitura sinfonica – la futura Quinta –, che sarebbe stata completata solamente all’inizio del 1808, dopo una lunga gestazione, piena di dubbi e ripensamenti, nel corso di quattro anni, peraltro assai prolifici, in cui, assieme a diverse composizioni, nacque – nell’estate del 1806, a Martonsvasar in Ungheria, dove l’autore era ospite dei conti von Brunswick – la Quarta sinfonia. La partitura – commissionatagli dal conte Franz von Oppersdorf – fu terminata in un periodo davvero breve e ovviamente dedicata al committente. Il clima lieve e sereno della sinfonia, aliena da ambizioni titaniche – il musicista, innamorato di Teresa von Brunswik, stava vivendo un momento felice – si contrappone alla tragicità dell’Eroica e della Quinta. Non a caso, il genio critico di Schumann coniò, per la Quarta sinfonia di Beethoven, l’appellativo di “Ellenica”, associandole l’immagine allegorica di “una slanciata fanciulla greca fra due giganti nordici”.
Particolarmente vigorosa e contrastata ci è parsa la lettura, proposta da Cohen, della Quarta sinfonia, aperta da un’introduzione lenta (Adagio), in cui dominava un misterioso clima di attesa, finché brusche strappate dell’orchestra, non sono sfociate in un’esplosione di gioia, corrispondente all’attacco dell’Allegro vivace, mentre nellAdagio – quasi una seducente “aria” orchestrale – la placidità del canto è risaltata sulla inquietudine ritmica dell’accompagnamento. Ancora un principio ritmico è alla base del Minuetto, dove Beethoven – analogamente a quanto farà anche nella Settima – propone due volte, fra tre ripetizioni dell’episodio principale, il Trio, dominato dai fiati cantilenanti, con una conseguente forte contrapposizione fra questi ultimi e gli archi. Il Finale (Allegro ma non troppo), un perpetuum mobile estremamente brillante, simile nell’impostazione a certi analoghi movimenti di Haydn, è risultato – come dev’essere – fortemente marcato nel ritmo e contrastato a livello dinamico, fino alla conclusione ad effetto, che ha riaffermato con decisione i tratti giocosi della partitura.
Quattro anni separano la Sesta sinfonia dalla Settima, composta fra il 1811 e il 1812, in contemporanea con l’Ottava. La prima esecuzione pubblica avvenne l’8 dicembre 1813 nella sala dell’università di Vienna in una serata, organizzata da Malzel – l’inventore del metronomo e di altri congegni ad uso musicale – a beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella recente battaglia “napoleonica” di Hanau (30-31 ottobre). Si trattava, dunque, di una manifestazione patriottica, che aveva il suo clou in un pezzo, composto da Beethoven per celebrare il trionfo di Wellington sull’esercito francese, il 21 giugno, presso la città spagnola di Vitoria: il Wellingtons Sieg oder die Schlacht bei Vittoria, che ebbe un trionfale successo. Nondimeno anche la Settima sinfonia, si fece apprezzare: in particolare l’Allegretto riuscì fino da allora a conquistare la platea, che ne richiese il bis. Se i contemporanei anche più spregiudicati, come C. M. von Weber, espressero delle riserve riguardo a questa partitura, cogliendovi un’originalità spinta all’eccesso, Wagner farà piazza pulita di ogni perplessità, definendola “l’apoteosi stessa della danza” e dichiarandosi travolto dalla sua “onnipotenza bacchica”.
E un furore “bacchico” ha diffusamente caratterizzato l’interpretazione di Cohen, talora parossisticamente veloce nell’agogica quanto estrema nella dinamica. Dopo il Poco sostenuto introduttivo – una serena introduzione, dove spiccavano le continue scale ascensionali dei vari strumenti – e la sua trasformazione nel Vivace, attraverso la ripetizione di una sola nota – secondo un procedimento, notato anche nella Quarta sinfonia –, il danzante tema principale, intonato dagli strumentini, è dilagato negli altri gruppi orchestrali, sostenuto dalla sfrenata concitazione del ritmo dattilico, fino alla sua perentoria irruzione nel “Tutti”. Un’aura lieve e pensosa ha avvolto l’Allegretto, aperto e chiuso da un accordo di la minore dei fiati, che si basa quasi integralmente su un compassato modulo ritmico ed è pervaso dalla cantabilità sconsolata del soggetto principale che, raggiunto il climax espressivo nella piena sonorità, decresce e muore, con l’intermezzo di un suo sviluppo fugato. Nel Presto l’accelerazione ritmica ha ripreso il sopravvento, appena placata da un Trio, intercalato due volte, come nella Quarta sinfonia, al movimento principale. Il finale, Allegro con brio, ha riproposto tutti quegli aspetti trascinanti, bacchici, messi in luce da Wagner: la musica ha assunto un irrefrenabile andamento vorticoso, percorsa da quel soggetto danzante, da cui l’inventiva dell’autore trae un frenetico susseguirsi di spunti motivici, che sono confluiti nel tripudio della perorazione conclusiva. Successo calorosissimo.