Reggio Emilia, Teatro Valli, Danza 2019/20 – Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto
“DREAMERS”
“Cloud” | “Materia”
Coreografia Philippe Kratz
Musica elettronica originale Borderline order
Costumi Costanza Maramotti
luci Carlo Cerri
“Traces”
Coreografia, costumi, scene, disegno luci, collage musicale Rihoko Sato
“Secus”
Coreografia Ohad Naharin
musica Chari Chari, Kid 606 + Rayon (mix: Stefan Ferry), AGF, Chronomad (Wahed), Fennesz, Kaho Naa Pyar Hai, Seefeel, The Beach Boys
Sound design & editing Ohad Fishof
Costumi Rakefet Levy
Luci Avi Yona Bueno (Bambi)
Interpreti: Noemi Arcangeli, Saul Daniele Ardillo, Damiano Artale, Estelle Bovay, Hektor Budlla, Martina Forioso, Clément Haenen, Arianna Kob, Philippe Kratz, Ina Lesnakowski, Grace Lyell, Ivana Mastroviti, Giulio Pighini, Roberto Tedesco, Hélias Tur-Dorvault, Serena Vinzio
Reggio Emilia, 11 gennaio 2020
Il trittico di Aterballetto è astratto e geometrico come un tableau di Mondian, essenziale ma allo stesso tempo carico di simboli. Tuttavia nelle tre coreografie raccolte sotto il titolo di Dreamers, non c’è proprio l’intento di voler dematerializzare e scomporre ciò che è così fugace ed evanescente come il sogno, ma quello, un po’ accademico, di voler rappresentare memorie e sentimenti attraverso scene fin troppo pensate, pur sembrando improvvisate. Insomma, mentre Kratz e Sato offrono un esame di coscienza ricco di sfumature molto personali, che secondo noi testimonia la fase in cui un artista è alla ricerca della propria cifra stilistica, Naharin dà prova di saperla riadattare alle esigenze e contingenze.
La serata, piuttosto lunga e impegnativa, per le due ore, compresi il paio di intervalli, è partita con Cloud/Materia, la nuova coreografia del giovanissimo Philippe Kratz, (che balla in Traces della giapponese Sato e in Secus dell’israeliano Naharin), già nell’equipe di Aterballetto da una dozzina d’anni e premio Danza&Danza 2019 come miglior coreografo; apprezzato interprete di Calibano nella Tempesta di Giuseppe Spota. I costumi del corpo di ballo e la trama coreografica di Cloud/Materia si ispirano alle creazioni textile design di Anni Albers, un’artista della Bauhaus a cui la critica ha riconosciuto il merito di aver saputo tradurre i propri pensieri in tessuti e intrecci. I lavori della Albers sono come dei codici a barre colorati, fittamente intrecciati. Così ha voluto fare Kratz, con l’aiuto delle trame sonore trance-elettroniche monotimbriche della Bordeline Order: un balletto con movimenti di gruppo e duetti sparsi, come un cielo coperto, increspato di nubi che qua e la è penetrato da raggi potenti di sole. A nostro avviso, purtroppo, le luci calde non hanno esaltato i bei costumi di Costanza Maramotti e soprattutto non hanno drammatizzato come dovevano la mezz’ora di tensione innescata dai gesti a ritmo di musica (che a tratti ricordava quella di J. M. Jarre), un vero peccato. Rihoko Sato, molto apprezzata nel fosco e cupo “Tristan and Isolde”, ideato e coreografo dal suo compagno artistico Saburo Teshigawara ha messo in scena la sua prima coreografia “di gruppo” che richiama quella del suo precedente “solo” incentrato sulle volute barocche del “Vespro della Beata Vergine” di Monteverdi. In un’intervista rilasciata a Belladanza, la ballerina giapponese ha rivelato di aver scelto personalmente gli 8 danzatori di Aterballetto, tra quelli che secondo lei erano più aperti a cose sconosciute. Infatti, nel suo Traces ha voluto portare in scena, grazie alla sua alter ego Ina Lesnakowski, un suo personale viaggio nella memoria e nei sentimenti. Un Tempus fugit, come le corse in diagonale molto veloci dei danzatori a sfiorare la Lesnakowski che con passi lunghi e distesi guadagna il centro dello stage che ha delle sedie messe a terra sullo sfondo. Le sedie in scena, che a noi hanno ricordato quelle lo stesso ingombranti del “Caffè Muller” di Pina Baush, costituiscono delle immagini di persone, sempre a detta dell’autrice, che hanno lasciato dei momenti della loro esistenza. Insomma noi, secondo la Sato, dobbiamo convivere con i fantasmi del passato, cioè dobbiamo muovere i nostri passi sulla base delle esperienze acquisite, solo così potremo amare il presente. Bello l’intermezzo del violino di “Passacaglia” di Franz von Biber, prima di precipitare nel finale in cui tutto va al contrario come se fosse il fumo in cui si tramuta il genio prima di rientrare nella lampada di Aladino. Il titolo del suo balletto, dice la Sato, allude alle tracce lasciate dai sentimenti che ritornano nel tempo e condizionano il nostro presente.
Tocca a Ohad Naharin chiudere la serata, col suo Secus, riarrangiato per l’occasione. Il ballerino e coreografo israeliano, con doppia cittadinanza israeliana e statunitense, è il direttore artistico della Batsheva Dance Company di Tel Aviv a cui sono stati commissionati molti lavori in Francia dove ha avuto il riconoscimento dell’ “Ordre des arts et des lettres”. A lui, artefice della tecnica Gaga (sua prima parola pronunciata), va il merito di aver risvegliato gli spettatori, un po’ annoiati dalla ripetitività delle scene delle coreografie precedenti, con la sua teatro danza ricca di movimenti estremi e con il mix di musiche potenti e ricche di sonorità: una serie di quadri improvvisati, diciamo pure destrutturati, al di là del cerchio e del muro (che richiamano la cultura ebraica), qui tramutati in visioni oniriche ricorsive che poggiano il gesto nella teatralità.