Wolfgang Amadeus Mozart: “La clemenza di Tito” (1791)

Opera seria in due atti su libretto di Caterio Mazzolà dall’omonimo dramma per musica di Pietro Metastasio. Rolando Villazón (Tito Vespasiano), Joyce Di Donato (Sesto), Marina Rebeka (Vitellia), Tara Erraught (Annio), Regula Mühlemann (Servilia), Adam Plachetka (Publio). Rias Kammerchor, Denis Comtet (maestro del coro), Chamber Orchestra of Europe, Yannick Nézet-Séguin (direttore). Registrazione: 2018.  2 CD DG 00289 483 5210

Può la debolezza di un unico interprete compromettere la riuscita complessiva di una registrazione che in tutte le altre componenti risulta più che riguardevole? Purtroppo la storia della discografia ci insegna che questo accade e che spesso singole pecche hanno guastato esecuzioni per ogni altro aspetto memorabili.

La nuova registrazione DG de “La clemenza di Tito” parte del progetto mozartiano che la casa discografica sta portando avanti con il direttore canadese Yannick Nézet-Séguin rientra purtroppo nella situazione sopra descritta. A mancare è infatti proprio il ruolo del titolo, vero che pur eponima la parte di Tito non ha quella centralità che ci si potrebbe aspettare ed è priva di grandi arie di bravura analoghe a quelle concesse ad altri personaggi ma è sempre il punto di equilibrio teatrale e musicale della costruzione. Con tutto l’affetto umano che sempre gli si riconosce la prestazione di Rolando Villazón non può certo ritenersi infatti soddisfacente. Le problematiche fisiche che hanno tormentato il cantante messicano hanno lasciato più di un segno. L’emissione è faticosa, la linea di canto indurita che lascia percepire in tutta l’opera un senso di sforzo e di fatica. Le difficoltà si ripercuotono anche nei recitativi dove la giusta ricerca di una maggior drammaticità porta ad effetti stilisticamente inappropriati. Certo resta un timbro  suggestivo che da al ruolo una pienezza e un’autorità impossibili per gli esangui tenorini cui a torto è spesso affidato. A ciò si aggiunge la ben nota intelligenza interpretativa di Villazón, questo non basta a compensare i problemi di uno strumento su cui la sorte si è abbattuta con particolare crudeltà.
Il resto della produzione è invece di altissimo livello. Qualche critica si può avanzare per la direzione di Nézet-Séguin. Il direttore è alla guida di uno strumento di sicura affidabilità come la Chamber Orchestra of Europe da cui trae splendide sonorità vivide e luminose; bei colori e ritmiche molto brillanti. Una direzione capace di grandi trasparenze, di suggestivi abbandoni melodici. Si apprezzano l’energia dei cori – specie quello che apre la scena dell’anfiteatro di un rigore quasi da musica sacra – e la cura degli accompagnamenti. A tratti manca però un po’ di autentica drammaticità, di quell’aulica compostezza che è propria dell’opera seria neoclassica e in certi momenti le atmosfere sembrano virare troppo verso tonalità di mezzo carattere quasi da trilogia dapontiana così come un po’ spente sono le fiammate già romantiche del finale primo.
Vera mattatrice risulta Marina Rebeka. Alle prese con uno dei personaggi più impervi di tutto il repertorio – non solo mozartiano – la cantante lettone firma un’interpretazione da antologia. Voce autenticamente bella per timbro e colore, sorretta da una tecnica impeccabile, domina senza scomparsi l’ampia tessitura del ruolo con gravi pieni e sonori e acuti sfolgoranti. Nonostante le difficoltà del ruolo la Rebeka non perde mai quella morbidezza dell’emissione, quella pulizia del canto che è propria della miglior scuola belcantistica italiana in cui la cantante si è formata e che tendeva a mancare in pur grandi interpreti di tradizione mitteleuropea. Se a questo si aggiunge un temperamento al calor bianco da autentica tragédienne è facile intuire come la sua prestazione s’imponga immediatamente fra quelle da ricordare.
Degno Sesto di tanta Vitellia è Joyce di Donato, semplicemente impeccabile da ogni punto di vista. Musicalissima nel canto, di abbagliante facilità nei passaggi di coloratura, di nobile eleganza nell’accento, impeccabile in un fraseggio curatissimo, sempre cangiante di colori e di inflessioni. Forse il timbro è un po’ chiaro e in alcuni passaggi un po’ più di fuoco non avrebbe guastato – ma la direzione poco concedeva al riguardo – quello che si ascolto è un’autentica lezione di canto.
Tara Erraught (Annio) e Regula Mühlemann (Servilia) cantano in modo squisito – qualche imprecisione nei recitativi per la Erraught ma nulla di disturbante. Nel loro duettino, non hanno la dovizia vocale che si ritrova in altre edizioni ma sono di una grazia e di una spontaneità incantevoli.
Adam Plachetka è un Publio dalla voce più chiara e giovanile di quanto voglia la tradizione, il che non guasta essendo il ruolo quello di un ufficiale in servizio e non di un vecchio senatore, ma anche vocalmente più robusto e meglio cantato e arricchito da un accento di nobile virilità.
Un’edizione quindi complessivamente  buona, con punte di eccellenza, con il limite di un protagonista troppo problematico.