Napoli, Teatro di San Carlo, Inaugurazione Stagione d’opera e danza 2019/2020
“PIKOVAJA DAMA” (La dama di picche)
Opera in tre atti su libretto di Modest Il’ič Čajkovskij dal racconto omonimo di Aleksandr S. Puškin.
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Herman MISHA DIDYK
Il conte Tomskij TOMAS TOMASSON
Il principe Eleckij MAKSIM ANISKIN
Liza ANNA NECHAEVA
Polina AIGUL AKHMETCHINA
La contessa JULIA GERTSEVA
Čekalinskij ALEXANDER KRAVETS
Surin ALEXANDER TELIGA
La governante ANNA VIKTOROVA
Maša SOFIA TUMANYAN
Čaplickij/Il cerimoniere GIANLUCA SORRENTINO
Narumov SEUNG PIL CHOI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Juraj Valčuha
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Willy Decker (ripresa da Stefan Heinrichs)
Scene e costumi Wolfgang Gussmann
Luci Hans Toelstede (riprese da Wolfgang Schünemann)
Napoli, 15 dicembre 2019
Il San Carlo di Napoli inaugura la Stagione d’opera e danza 2019/2020 con Pikovaja Dama (La dama di picche), opera in tre atti di Pëtr Il’ič Čajkovskij, che fin da subito fu pienamente consapevole della preziosa particolarità, dell’evidente atipicità del lavoro. L’opera, che ebbe felice battesimo nel dicembre del 1890 al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, verte tra finzione romantica e fantasmagoria, tra infuocate passioni e bucolici frammenti di settecentesca memoria. Opere come queste, però, per il gusto romantico italiano, appaiono particolarmente noiose o difficili nell’ascolto, nonostante la fruibilità che interessa proprio la scrittura della Dama. Difatti, s’è dimostrata come azzardata la scelta d’inaugurare la stagione napoletana con un’opera atipica e desueta per le nostre scene. Difficoltà aggravata poi dalla scarsa pubblicità che l’evento ha ricevuto dai mass media, e dalla scelta d’affidare la regia a Willy Decker (ripresa da Stefan Heinrichs), con scene e costumi ideati da Wolfgang Gussmann e luci di Hans Toelstede, riprese da Wolfgang Schünemann. Il regista immerge i deliri, le visioni d’un cervello malato in una tetra non-realtà, privata delle essenziali coordinate spazio-temporali. La paralizzante eliminazione di aspetti solo apparentemente esterni – quali il tempo, lo spazio, il luogo – rende le figure come parlatori che fanno senza fare, come immersi sott’acqua. L’azione è tanto esasperata quanto innegabilmente immobile. L’agire illogico e intricato dei personaggi è ancora più finto, poiché appare come tale sullo sfondo del nulla, nella presenza scenica del niente. Amore, deliri d’onnipotenza, la malattia per il giuoco d’azzardo… accade tutto nello spazio vuoto e polveroso, soffusamente illuminato, d’una scatola nera, opprimente, intollerabile nella pesante monocromia; una realtà assente a se stessa, ed a tratti popolata da esplicative personificazioni, come quella della Morte, accolta dai mugugni dei napoletani più scaramantici. Tale alienazione, ovviamente, si riverbera sulle figure spersonalizzate. Cala il sipario e si dimentica tutto. La musica, però, protesta e rinnega questa visione scenica. La dicotomia tra orchestra, diretta da Juraj Valčuha, e palcoscenico è incontrovertibile. Il Maestro attira a sé la materia narrativa, facendola fluire in un racconto dall’ampio profilo sinfonico, caratterizzato da frammenti e somiglianze di mozartiana memoria e da vari leitmotiv elegantemente trasformabili. Si tratta del “russismo occidentalizzante” di Čajkovskij, investito d’una espressività infuocata ma, a tratti, quasi elegiaca: dal sole primaverile alla tempesta da manuale, infallibile nella sua forza effettistica e punteggiata da percussioni; tutti topoi operistici che non ostacolano l’unità compositiva e sonora, poiché pienamente amalgamati da Valčuha nel tessuto orchestrale. Ottimo esito per la compagnia di canto, avvolta in grigie divise e in abiti tardo-ottocenteschi, dalle tinte fredde. Misha Dydik ha la pienezza di voce che si domanda per il ruolo di Hermann, per il quale ci vuole una sorta di Heldentenor. Il temperamento spontaneo, degno del ruolo, gli consente d’apparire come infuocato, virile, garantendo così al folle ufficiale abbandoni lirici e segnatamente drammatici, con proiezione corposa, omogenea ed una emissione potentemente declamatoria. L’ottuagenaria e misantropa Contessa è magistralmente interpretata da Julia Gertseva. Il mezzosoprano, con voce aspra, volutamente cattiva,cupa, quasi soffocata nel grave, dipinge una megera tenuta in vita dal fuoco della nevrosi. Sottomessa ad essa, la povera nipote Liza è qui impersonata da Anna Nechaeva. La voce ricca d’accenti dolenti, con una particolare propensione ai toni elegiaci, trova una perfetta corrispondenza nel delineare un personaggio dolentemente languido. Parimenti convincente c’appare anche il baritono Tómas Tómasson, che riesce a garantire al conte Tomshkij tutta la spavalderia degna della parte, soprattutto nella Ballata dell’Atto I, nel racconto del mistero della Contessa, con voce ferma, possente, dal timbro segnatamente scuro, e dall’attraente cantabile. Notevole l’apporto del coro, magistralmente diretto da Gea Garatti Ansini. Ottime, poi, le prove vocali e teatrali di: Maksim Aniskin (il principe Eleckij); Aigul Akhmetchina (Polina); Alexander Kravets (Čekalinskij); Alexander Teliga (Surin); Anna Viktorova (la governante); Sofia Tumanyan (Maša); Gianluca Sorrentino (Čaplickij/il cerimoniere); Seung Pil Choi (Narumov). In conclusione, un titolo “fuori repertorio” (in un allestimento poco accattivamente) per il teatro napoletano, ha trovato da parte del pubblico un’accoglienza alquanto tiepida.