Teatro Comunale di Sassari: “Il Trovatore”

Teatro Comunale di Sassari, Stagione Lirica 2019
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro parti di Salvadore Cammarano.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Luna DARIO SOLARI
Leonora CHIARA ISOTTON
Azucena SILVIA BELTRAMI
Manrico ANTONIO CORIANÒ
Ferrando FRANCESCO LEONE
Ines MARIA BAGALÀ
Ruiz ENRICO ZARA
Un vecchio zingaro STEFANO ARNAUDO
Un messo CLAUDIO DELEDDA
Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Coro dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Direttore Alberto Maniàci
Maestro del coro Antonio Costa
Regia Roberto Catalano
Scene Emanuele Sinisi
Light designer Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento dell’Ente Concerti “Marialisa de Carolis”
Sassari, 6 dicembre 2019
Trovatore è tornato. Trovatore, come Traviata, Lucia… il vero melomane omette gli articoli, parla delle sue opere come se fossero amici/amiche, e il capolavoro verdiano è uno dei migliori amici per i veri amanti del melodramma. Scontata quindi dopo quindici anni l’attesa per l’opera nella stagione sassarese nonostante i veri melomani siano ormai merce rarissima. Meno scontato il caloroso successo riportato da questa edizione che ha accontentato quasi tutti, grazie a un solido cast e una buona direzione scenica e musicale. Le difficoltà nell’allestimento del titolo sono note, a cominciare da un palcoscenico con quattro protagonisti, tutti di uguale e notevole peso vocale e interpretativo; per non parlare del basso cui è affidata la bella scena introduttiva, certamente inadatta a un qualunque routinier. Il Trovatore arriva inoltre al centro della cosiddetta Trilogia popolare che sancisce la maturità dell’autore e in qualche maniera rappresenta il confine e il punto di non ritorno per il melodramma romantico tradizionale: La Traviata, solo pochi mesi dopo, mostrerà nuove strade che porteranno il teatro lirico italiano allo splendido canto del cigno.
In conseguenza di ciò è difficile la scelta del taglio interpretativo in un’opera che presenta una strutturazione collaudata ma un’espressione nuova, evidente già in Rigoletto, essenziale e sempre meno astratta che costituirà d’ora in avanti la cifra stilistica ben riconoscibile dell’autore. In troppi allestimenti la problematica si risolve in maniera semplicistica con medioevo da soldatini, temperatura alta e tenore muscolare, esaltando gli aspetti pugnaci (in realtà mai visibili in scena) e passionali. È stata invece in questo caso apprezzabile la finezza dello spettacolo curato da Roberto Catalano, con le scene di Emanuele Sinisi, in cui l’essenzialità del nuovo allestimento non è stata solo dovuta all’inevitabile budget, ma anche a una logica coerente in tutti gli aspetti della messa in scena. L’unico aspetto decorativo era costituito da un fondale prospettico, un colonnato geometrico con punto di fuga centrale che sembrava evocare una distanza metafisica nel tempo e nello spazio. Pochi altri elementi astratti evocatori del passato (un taglio orizzontale modificabile che ampliava o restringeva gli spazi per i cambi scena o le entrate, un tappeto di cenere, una libreria) caratterizzavano il palcoscenico; il tutto in un elegante bianco e nero, appena temperato da alcuni bruni e con studiatissime macchie di colore per certi costumi o il rosso evocatore del rogo, fuoco archetipo che domina la vicenda. Fondamentale in ciò l’ottimo lavoro sulle luci di Fiammetta Baldiserri e la linearità neo-rinascimentale dei costumi di Ilaria Ariemme, assai più belli e funzionali delle solite mascherate cappa e spada. Una volta tanto si è vista anche una regia coerente con l’allestimento, con pochi spontaneismi naturalistici e una grande cura delle geometrie sul palcoscenico, sia negli spostamenti che nell’occupazione degli spazi. Per la verità poteva essere curata meglio la scena dello scambio di persona da parte di Leonora, ma in generale l’utilizzo di una scenografia neutra, indicativa, allusiva, tende a spostare l’accento in una dimensione inconscia sicuramente più suggestiva per uno spettatore contemporaneo appena smaliziato.
Alberto Maniàci ha diretto in coerenza con questa visione, concertando con attenzione e senza lasciarsi prendere la mano da una scrittura dove l’effetto grossolano è sempre in agguato; sono state infatti ammirevoli le sfumature nei numerosi passi alternati e il controllo delle dinamiche, sempre ben bilanciate col palcoscenico. Buono anche nei momenti più insidiosi l’insieme che appariva ben “piantato”, senza la sgradevole sensazione di precarietà ritmica che spesso si rileva in certe produzioni, il tutto con una buona fluidità agogica e senza rigidità espressive. Chiaramente gran parte del merito va all’Orchestra dell’Ente che a fine stagione appare amalgamata ed equilibrata in tutte le sue sezioni, particolarmente cresciuta soprattutto nella fusione degli archi rispetto all’ultima produzione.
Si, ma… com’era il Do della Pira? Alla fine metà delle valutazioni degli spettatori in quest’opera vengono spese sulle celebri puntature apocrife “di petto”, croce e delizia per tutti i tenori che si cimentano nel ruolo del titolo. Va detto prima di tutto che non si trattava di Do, ma di Si: la celebre cabaletta è stata chiaramente abbassata di mezzo tono. Ma va detto che ciò non ha tolto nulla alla buona prestazione di Antonio Corianò, dotato di splendido colore vocale, bella presenza e ragguardevole temperamento. Certamente non è travolgente come certi riferimenti discografici che, più a torto che a ragione, costituiscono il termine di paragone; però nella logica della produzione è perfettamente ben inserito, grazie anche a una buona tecnica dove resta solo da affinare la fluidità nella zona del passaggio. Bisogna ricordare inoltre che del creatore del ruolo, Carlo Baucardé, esiste una cronaca coeva che ne loda la dolcezza dell’emissione e l’uso abile del falsetto: pur sapendo poco di lui parrebbe quindi abbastanza chiaro che Manrico potrebbe essere l’ennesimo caso di un celebre ruolo la cui “tradizione drammatica” è stata enfatizzata da interpreti ben più recenti dell’originale e secondo canoni probabilmente lontani dalle intenzioni dell’autore.
Ottima anche la Leonora di Chiara Isotton, ammirevole sia nelle belle mezze voci che nella sicurezza del registro acuto su tutte le dinamiche. Tacea la notte placida è stata cesellata con gusto e raffinata espressione, ma in generale tutta l’interpretazione è stata da incorniciare per sontuosità vocale, tecnica e varietà di accenti. Però il ruolo più impegnativo dell’opera è forse quello del Conte di Luna, sia per l’impervia scrittura vocale che per lo spessore drammatico richiesto dal personaggio; Dario Solari risolve abilmente la parte in crescendo, dopo alcuni lievi cedimenti nell’intonazione circoscritti alle scene iniziali, sfruttando maggiormente l’ottima tecnica piuttosto che la dinamica vocale, che appare talvolta un po’ ristretta. Il balen del suo sorriso è apparsa comunque ben cantata, espressiva, con un magnifico legato e la tendenza a inserirsi naturalmente nella timbrica orchestrale, senza alcuna forzatura. Azucena è uno dei grandi mezzosoprani verdiani e il personaggio centrale dell’intreccio: Silvia Beltrami impersona un ruolo che conosce perfettamente con grande professionalità e grazie a dei mezzi vocali importanti. Di tutto il cast, forse per la consuetudine col personaggio, appare l’elemento maggiormente legato a un taglio tradizionale dell’opera, sia nell’atteggiamento vocale che in quello scenico. Intensa in particolare l’esecuzione di Stride la vampa, anche se il vibrato talvolta eccessivo tende a sporcare l’intonazione e la linea del canto. Una citazione particolare va fatta infine per Francesco Leone che, pur senza l’imponenza e il colore vocale richiesto dalla parte (ma con tutti i “gruppetti” di semicrome perfettamente a posto), ritaglia un Ferrando insolitamente giovane e fresco, poco consueto ma comunque efficace in una parte interessante e decisamente curata per un comprimario. Più che corretta la prestazione di Maria Bagalà nei panni di Ines e sono apparsi professionali e sicuri Enrico Zara (Ruiz), Stefano Arnaudo (un vecchio zingaro) e Claudio Deledda (un messo).
Gagliarda infine la prestazione del Coro dell’Ente preparato da Antonio Costa: preciso, puntuale, ricco di bella vocalità specialmente nei registri maschili medio-acuti, ha ben interpretato con carattere tutti i vari brani dedicati, ma con qualche cedimento dell’intonazione negli interventi fuori scena.