Milano, Teatro alla Scala- Stagione d’Opera e Balletto 2019-2020
“TOSCA”
Melodramma in tre atti – Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini
(Nuova edizione critica a cura di Roger Parker, versione Roma 1900)
Floria Tosca ANNA NETREBKO
Mario Cavaradossi FRANCESCO MELI
Il Barone Scarpia LUCA SALSI
Il sagrestano ALFONSO ANTONIOZZI
Cesare Angelotti CARLO CIGNI
Spoletta CARLO BOSI
Sciarrone GIULIO MASTROTOTARO
Un carceriere ERNESTO PANARIELLO
Un pastore GIANLUIGI SARTORI
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Nuova produzione Teatro Alla Scala
Milano, 13 dicembre 2019
C’è sempre una prima volta. Sorprende che l’opera pucciniana tra le più note e amate dal pubblico non sia mai stata scelta fino ad oggi come titolo inaugurale della stagione scaligera. Ma c’è di più: a questa “Tosca”, in particolare, nessuno ha mai assistito se non i presenti al debutto assoluto del 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma. In mezzo a quella platea eletta sedeva naturalmente anche il compositore, il quale dopo la prima esecuzione in palcoscenico apportò tagli e aggiustamenti sostanziali per restituirci la partitura come tutti la conosciamo oggi.
Continua dunque il percorso di indagine filologica fortemente voluta e portata egregiamente avanti da Riccardo Chailly, con un nuovo ritorno alle origini che ci apre all’ascolto di otto passaggi inediti incastonati in diversi punti determinanti dell’opera. Per citarne alcuni: ascoltiamo cinque misure aggiuntive nel duetto Tosca-Cavaradossi al primo atto, un finale primo differente con variazioni corali nel Te Deum, due misure aggiuntive a chiusura del “Vissi d’Arte” e, tra le variazioni più sostanziali, ampie dilatazioni sinfoniche sulla scena dell’assassinio di Scarpia e sul finale ultimo. Chailly, in una perfetta simbiosi con l’Orchestra del Teatro Alla Scala, ci accompagna nella scoperta di questa Tosca inedita in un racconto musicale fluido, con una lettura d’ampio respiro lirico e al contempo efficace nei suoi aspetti crudi, sanguigni, volti a sviscerare i tratti più tragici e cupi della vicenda, sempre entro i limiti di un rigore formale ineccepibile. L’ennesima conferma di avere sul podio una bacchetta ad oggi difficilmente superabile in questo repertorio, capace di scavare nell’anima di Puccini con estrema intelligenza interpretativa, approfondimento musicale e cura maniacale nelle scelte ritmiche e dinamiche.
Purtroppo non sempre un nome è una garanzia. Diva internazionale e acclamata Tosca in tutto il mondo, Anna Netrebko approda a Milano nel ruolo del titolo e – pur intascandosi il favore del pubblico alla Prima e in replica, per dovere di cronaca – la sua interpretazione lascia più di qualche perplessità. Per quanto la voce sia pastosa e di volume ragguardevole, resta l’impressione di uno sforzo costante nell’emissione e il conseguente sacrificio di qualsiasi tipo di colore e dinamica, qualsiasi suono raccolto o ammorbidito all’occorrenza. Un’intenzione interpretativa che non trova una scappatoia nemmeno a livello scenico, per quanto il soprano tenga il palco con sicurezza: di un personaggio complesso che vive e si nutre di sfumature infinite – amante appassionata, gelosa, dolce, trasparente, impulsiva, uterina, diva fiera, affascinante, donna orgogliosa, risoluta, devota – non rimane che un pallido ritratto senza dimensione che si regge su un’alternanza binaria di sfoghi d’ira e lamenti cantati tutti a grande (grandissima) voce.Eccezione assoluta a questa tendenza è il suo “Vissi d’Arte” che sembra galleggiare in una bolla a sé, barlume di un passato di gloria belcantistica che nessuno ha dimenticato: qui il soprano russo canta finalmente con sincero trasporto, emissione omogenea, bel legato impreziosito da accenti e sfumature, brillante negli acuti. C’è ancora ampiamente tutto il buon materiale di un’artista di razza, forse da incanalare in altri ruoli più congeniali.
Quanto ai limiti espressivi di cui sopra, affiancare un Cavaradossi misurato e composto come quello di Francesco Meli di certo non aiuta. Con una vocalità perfettamente congeniale all’opera, il tenore genovese interpreta un Mario convincente a tutto tondo, nell’amore (struggente in “Qual occhio al mondo”), nello slancio eroico (incendiato in “L’alba vindice appar”), nella morte (rassegnato in “E lucean le stelle”). Che non tutti gli acuti siano perfettamente a fuoco poco importa, la voce corre in teatro con estrema facilità ed è modulata con controllo minuzioso del fraseggio, ricercatissimo, costellato di colori e mezzevoci.
Ben più ruvido, ma non per questo grossolano, lo Scarpia di Luca Salsi. Figura cardine dell’opera, scavato musicalmente da Puccini fino al midollo e non per niente dominante nella partitura dal principio con il tritono demoniaco insito nel suo tema. Scarpia è subdolo, ambiguo, sottile, volgare, crudele, ma sempre in apparenza nobile ed elegante: il baritono parmigiano riesce molto bene in questa interpretazione stratificata, nel carattere e nella voce. Efficace la varietà di accenti lungo tutto il secondo atto, dall’aria (“Ha più forte sapore”), ai cantabili (“…Già mi struggea l’amor della diva!”) ai passaggi prossimi al declamato (“Come tu m’odii…Tosca, finalmente mia!”).
A completare il cast artisti di altissimo livello, su tutti Alfonso Antoniozzi che con straordinaria intelligenza teatrale e vocalità rutilante riporta i riflettori sul ruolo del sagrestano che spesso rischia di passare inosservato. Malefico e ben cantato lo Spoletta di Carlo Bosi, chiamato in questa edizione a recitare una versione estesa e alternativa della preghiera durante la scena della tortura.Funzionale l’Angelotti di Carlo Cigni, come anche il resto del cast: Giulio Mastrototaro (Sciarrone), Ernesto Panariello (un carceriere), Gianluca Sartori (un pastorello). Impeccabile il Coro diretto da Bruno Casoni con un plauso particolare al finale primo, un Te Deum (nella sua prima inedita stesura) da cardiopalma.
Questa Tosca è nel suo complesso un trionfo musicale che trova nel brillante spettacolo di Davide Livermore un perfetto contraltare. Una regia d’impronta fortemente cinematografica non come vezzo gratuito ma come omaggio a una partitura già vicina a un vero e proprio storyboard fin dalla sua pionieristica concezione: non solo nel libretto le azioni/intenzioni sono descritte nel minimo dettaglio, ma la musica stessa nella sua potenza e varietà suggerisce una narrazione precisa dei movimenti, delle intenzioni, degli stati d’animo restituendone una sorta di concretezza visiva. Livermore non fa che assecondarla con intelligenza, rispetto e insieme soluzioni innovative che strizzano ampiamente l’occhio alla Prima televisiva, ma perfettamente funzionanti anche in sala. Un maestoso ingranaggio teatrale in movimento perpetuo delinea gli spazi e li percorre con occhio cinematografico, fornendo allo spettatore diversi punti di vista sui protagonisti come osservandoli tramite una macchina da presa, da diversi campi e angolazioni. La trovata più originale e vincente in questo senso chiude il terzo e ultimo atto, in cui seguiamo Tosca istante per istante nel suo lancio nel vuoto, in un dimenarsi in slow motion con la disperazione in volto e l’abito gonfiato dal vento, svanendo nel nero all’impatto finale. Rimane un mistero, per chi scrive, come questa scena sia stata in più occasioni letta come ascesa al cielo in una sorta di Assunzione (forse un effetto ottico dei raggi di luce, la posizione eretta, le braccia alzate), ma resta interessante anche questa doppia interpretazione che potrebbe anche andare a completare la prima.
Immancabili per una suggestione cinematografica a tutto tondo anche i contributi video di D-Wok, funzionali ma non invasivi, impiegati principalmente nelle grandi tele a olio come l’imponente Maddalena di scuola carracciana e i dipinti nello studio del Barone che velatamente partecipano alla tragedia in corso voltandosi verso Tosca. Suggestivo anche il cielo plumbeo del finale sul quale si staglia l’imponente ala di Castel Sant’Angelo. Le scene firmate da Giò Forma restano coerenti con il tempo e i luoghi in cui si svolge la vicenda: Roma, 1800. Mastodontiche, cupe, grigio pece nelle cromie dominanti, illuminate ora da esplosioni d’oro negli altari di Sant’Andrea della Valle, ora dal luccichio dei marmi a Palazzo Farnese. Grande valore aggiunto è dato anche dalle luci di Antonio Castro, non solo eccezionali a livello visivo e compositivo – citiamo ad esempio la suggestiva luce lunare che filtra dall’ampio finestrone nel secondo atto – ma pregnanti nel sottolineare una chiave di lettura fortemente Scarpia-centrica, dall’accecante ingresso in scena (“Un tal baccano in chiesa!”) come fosse stato rigettato dall’inferno, agli occhi di bue che spesso lo isolano dal contesto (pensiamo al finale primo quando l’Altissimo sale tra gli incensi ed egli rimane ancorato a terra tra le tenebre o allo spot sul suo corpo esanime sovrastato da una Tosca in trionfo). Il focus su Scarpia è sempre al massimo, malvagio deus ex machina di tutta l’opera tanto nella partitura quanto sulla scena. Anche i costumi di Gianluca Falaschi lavorano su un piano evocativo-simbolico, elevandosi a manifesto della personalità di chi li indossa: Tosca porta sempre una nota di rosso che è passione e sangue, abbinata a un celeste di salvifica purezza; Scarpia, come i suoi sbirri veste un soprabito di pelle nera sporcata di porpora, simbolo di un’anima corrotta. Il teatro è gremito e scrosciante è l’applauso del pubblico al termine della recita, con ovazioni per Chailly e i tre protagonisti, ulteriore tributo dopo gli applausi a scena aperta a seguito delle arie principali. Foto Brescia & Amisano