Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2019-2020
“LA BELLA ADDORMENTATA”
Balletto in tre atti e un prologo
Musica Pëtr Il’ič Čajkovskij
Coreografia Fredy Franzutti
Scene Francesco Palma
Aurora, la principessa NURIA SALADO FUSTÈ
Ernesto, il principe antropologo MATIAS IACONIANNI
Roberto, il padre di Aurora ALESSANDRO DE CEGLIA
Carabosse, la strega ANDREA SIRIANNI
Jardavan, la fata / zingara CAROLINA SANGALLI
Silvia, la madre di Aurora BEATRICE BARTOLOMEI
Uccellini azzurri ALICE LEONCINI e VALERIO TORELLI
Balletto del Sud
Direttore Fredy Franzutti
Napoli, 6 dicembre 2019
La bella addormentata in Salento di Fredy Franzutti, per Il Balletto del Sud, porta al Teatro Bellini di Napoli la bellezza di uno spettacolo di qualità che sa riconfermarsi un successo a ogni replica. Fin dalla sua creazione nel 2000 (della quale è rimasto tutto rigorosamente intatto, senza modifiche o ripensamenti) questa riscrittura del grande balletto del repertorio classico creato da Marius Petipa sulla splendida musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij nel 1890 (Teatro Mariinsky di Sanpietroburgo, Carlotta Brianza prima interprete ed Enrico Cecchetti nei ruoli di Carabosse e Uccello azzurro) è da sempre un successo di pubblico e di critica. Non una voce fuori campo per una geniale intuizione del coreografo che, per amore dei propri ricordi e della sua terra, ridona al grande classico a noi noto dalla versione della fiaba di Charles Perrault una veste tutta originale.
Ambientata in Salento, il nucleo concettuale della principessa dormiente ereditato da Lo cunto de li cunti (o Pentamerone) di Giambattista Basile trasferisce il momento cruciale del dramma, ossia la puntura “col fuso di una tessitrice”, nella puntura della tarantola, innestando la visione antropologica che Franzutti ha voluto offrire al pubblico sul fenomeno del tarantismo. Molto ci sarebbe da dire al riguardo. Prodotto figlio del suo tempo, questo balletto resta gradevolmente attuale perché contiene la forza espressiva del dramma, non solo nella gestione della vicenda e nello sviluppo dei personaggi, che cambiano e assumono pesi differenti, quanto per la forma coreografica che diviene essa stessa sostanza drammaturgica. Cosa vuol dire? In primo luogo, lo studio delle fonti e la novità dell’idea hanno sviluppato alcuni ruoli e modificato il carattere di altri: il padre avanza prepotentemente in scena soprattutto a livello mimico, divenendo il pilastro della narrazione e definendo i momenti di passaggio principali, passando dal comico al tragico e viceversa; la madre è al contempo sposa e genitrice, protagonista importante della vicenda in quanto molto presente in scena, con identico peso attribuito a danza e mimica; la Fata dei Lillà è una zingara, una madrina la cui magia è legata al mistero popolare. Carabosse, mimo en travesti, è invece una sorpresa continua: esordisce nel prologo in maniera classica apparendo in scena avvolta da nebbia densa, piegata, gobba, grottesca nel suo muoversi in grand plié alla seconda, come si muoverebbe un grosso ragno (un anticipo visivo da offrire inconsciamente al pubblico della tarantola che farà arrivare?) e si impone subito su tutti. Si impadronisce della scena e racconta in maniera impeccabile quello che sedici anni dopo sarebbe successo; torna nel primo atto a offrire il curioso animaletto in dono alla principessa Aurora e la sua posizione, ancora gobba, finisce per diventare eretta nel trionfo della sua cattiveria. Qui è evidente l’ambiguità di una creatura che non è né uomo e né donna o forse lo è entrambi insieme. Una inquietante realtà indefinita che, proprio per questo, incute ancora più paura in una società superstiziosa che, sia pure in parte evolutasi dopo la guerra, vive ancora di convenzioni. Dopo cinquant’anni, all’arrivo del giovane antropologo Ernesto – una sorta di illuminato studioso che squarcia le tenebre della superstizione – rinuncia a combattere sì, come ci dice il libretto, per l’età avanzata, ma muta inaspettatamente tenore di comportamento e questa è una soluzione che il pubblico non solo non si aspetta, ma che acclama a gran voce diviene la chiave di volta per la riuscita, poiché la “risata” entra inattesa in un dramma “serio”. Il personaggio, interpretato dal 2006 al 2012 dal grande mimo Lindsay Kemp, diviene così il principale motore dell’azione che il pubblico aspetta di vedere in scena, fino all’esilarante finale in cui, invitato/a alla festa di nozze, afferra il bouquet lanciato dalla sposa.
Letteratura, tradizione, innovazione, intelligente gestione delle fonti e antropologia fanno di questo lavoro un importante riferimento per chi studia la messa in scena danzata. Ma perché la forma sarebbe sostanza drammatica? Perché Franzutti non solo sa raccontare, ma sa farlo fare anche alla tecnica: persino nei divertissement virtuosistici (che sono tanti) il modo di condurre le sequenze coreografiche, la straordinaria musicalità finanche nei leitmotiv coreutici più ossessivi (developpés e pirouettes impostate dalla quarta posizione) la fluidità delle sequenze valorizza la storia e non interrompe la continuità narrativa. La stasi avviene invece nel momento in cui si innestano sezioni di repertorio, come l’Adagio della rosa e il primo solo di Aurora, ma anche il Passo a Due dell’Uccello azzurro: una compagnia dalla evidente qualità tecniche come il Balletto del Sud non ha bisogno di dimostrare di poter sostenere il grande repertorio, dando adito a una sorta di inconscio complesso nei confronti delle grandi Compagnie storiche, perché talvolta queste ultime non offrono spettacoli superiori o corrispondenti alle aspettative. I danzatori diretti da Franzutti si presentano al pubblico perfettamente omogenei nella tecnica e nella musicalità, sia pure con fisicità diverse che tuttavia il coreografo riesce a utilizzare al meglio nelle caratterizzazioni. Il Passo a due delle nozze, da lui ridisegnato, fluisce come tutto il suo “scrivere sulla scena” e non ci dispiace affatto che non abbia riproposto quello arcinoto di Petipa. Efficacissime le citazioni a effetto come la danza di Pulp fiction nella scena della festa o gli elementi di danza modern jazz che riportano alla mente un determinato periodo storico anche in ambito coreutico.
La gestione della partitura ha dimostrato inoltre due cose importanti: il gusto sapiente di Fredy Franzutti nel saper reimpastare un tessuto musicale creato ad hoc per determinati numeri coreutici senza snaturarli e la grande versatilità drammaturgica della musica di Čjajkovskj, la cui struttura sa prestarsi con naturalezza alla nuova situazione scenica senza difficoltà.
Ma passiamo agli interpreti: plauso sicuro ad Alessandro De Ceglia nelle vesti del padre, convincente e molto gradevole nell’attorialità che dimostra; altrettanto felice Beatrice Bartolomei nel ruolo della madre, simpatica e ammiccante, dalle linee lunghissime e la tecnica pulitissima. Ottimo Andrea Sirianni nei difficili panni di Carabosse, che ha incantato il pubblico e suscitato sonore approvazioni dando il giusto corpo alle intenzioni del personaggio. Molto bravi Alice Leoncini e Valerio Torelli nel Passo a Due dell’Uccello azzurro (lei apprezzata Aurora in altre repliche), estremamente difficile e a tratti forzato per mettere in evidenza le qualità tecniche dei solisti. La zingara Carolina Sangalli ottima nella tecnica e nella figura, è apparsa impenetrabile nell’espressione del volto. Con ogni probabilità i meno brillanti nel ruolo – non per tecnica ma per fisionomia – sono stati i due protagonisti: la bellissima prima ballerina Nuria Salado Fusté, dotata di un corpo longilineo e dalle linee affusolate, è stata una principessa Aurora pulita e precisa ma la sua maturità non è apparsa convincente nel suggerire l’aspetto di una fanciulla appena sbocciata; Matias Iaconianni nei panni di Ernesto non è invece dotato di quel carisma che ci si aspetterebbe dal ruolo. Ottima prestazione di tutto il corpo di ballo, con particolare lode a Ovidiu Chitanu e Alessandro Cavallo. Le scene di Francesco Palma hanno contribuito ad arricchire l’azione.
Poco silenzioso il pubblico (purtroppo il pubblico della danza si conferma il meno rispettoso e spesso il meno attento alle cose importanti di una messa in scena) ma molto caloroso negli applausi finali: in proposito c’è da sottolineare quanto il coreografo non risparmi i propri danzatori neanche a questo punto della serata, dati i pirotecnici passaggi da una quinta all’altra e le serie sfrenate di pirouettes e grandi salti, in una esplosione pirotecnica di virtuosismi.
Una programmazione nel fine settimana (soprattutto una pomeridiana) avrebbe determinato il sold out. Non sono mancati importanti incontri legati all’evento, come la conferenza tenutasi all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli dal titolo Danzare la Fiaba – Dal genere letterario agli allestimenti più significativi, dedicato a questa messa in scena specifica.
Vogliamo terminare questa recensione con un pensiero di Lindsay Kemp, che riassume al meglio il contenuto di tutto quello che è stato visto e detto: «Penso che ci sia ora un momento di stasi. I coreografi sono entrati in un trip e non riescono a trovare una nuova svolta. Gli spettacoli che vedo, anche se gradevoli, sono tutti molto simili tra loro. Sembra che tutta Europa abbia studiato nella stessa scuola. Notava la stessa cosa Pina. Infatti mi piace il lavoro che fa Fredy perché è molto diverso dagli altri. È narrativo, usa costumi e scene, si diverte a fare uno spettacolo. Anche se apparteniamo a due mondi diversi il suo modo di lavorare è molto simile al mio. La sua creatività è brillante e non conosce la noia […] Alcune volte dichiaro che lui è il mio figlio italiano […]». In effetti, in un panorama coreografico in cui si privilegia l’astrazione e la sofferenza, con tutto il rispetto per la validità di questi due aspetti, è bene non perdere di vista che il grande pubblico vuole soprattutto capire quello che vede e partecipare all’azione, vuole gioire. Perché la radice della danza, nella sua etimologia greca, è legata alla gioia. E in un mondo già così pieno di sofferenza, saper tradurre in danza la gioia è cosa più che gradita. (foto Federica Capo)