Vladimir Horowitz (Kiev, Ucraina 1 ottobre 1903 – New York, 5 novembre 1989)
A 30 anni dalla morte
“Avevo già ascoltato tutto ciò che era stato inciso da Horowitz, ma non lo avevo mai ascoltato dal vivo e l’opportunità si presentò così per caso. Si parlava dei vari stili e di conseguenza dei vari autori, quando il discorso cadde su Modest Mussorgskij. Horowitz disse che proprio quella mattina aveva terminato una trascrizione dell’ultimo brano dei Quadri in un’esposizione: La gran porta di Kiev. Seguendo ciò che aveva fatto Ravel per lo strumentale, aveva reso quel finale più adatto e pianisticamente pieno di quanto fosse nell’originale di Mussorgskij. Mi venne spontaneo chiedergli di suonare tutto il pezzo, cosa che lui fece di buon grado, tanto più che, avendo messo in programma per i prossimi giorni questa nuova versione a New Haven, eseguire il pezzo per la prima volta di fronte ad altri gli serviva da allenamento. Invertite le parti. Mi sedetti sulla poltrona. Appena ebbe messo le mani sul piano iniziando quel meraviglioso tema in cinque quarti della “passeggiata”, capii immediatamente perché quell’uomo avesse una tale popolarità nel mondo intero, e mi ritornò alla memoria una definizione su di lui del collega Carlo Zecchi: «Horowitz è il Don Giovanni dei pianisti». Raramente avevo ascoltato un pianista che riunisse in sé tutte le doti che ascoltavo in quel momento: bellezza del tocco. intuizione musicale, tecnica trascendentale.
Nella mia vita ho adorato quattro soli pianisti: Horowitz, per le ragioni già esposte, perché è lui il vero re della tastiera, che con grande, anzi unica spavalderia, riesce a superare tutte le difficoltà tecniche”.
Con queste parole il grandissimo pianista, compositore e direttore d’orchestra, Franco Mannino ricordò, nel suo libro Genii, il più anziano collega Vladimir Horowitz, che, nato nel 1903 a Kiev, fu certamente un autentico mito della tastiera del Novecento. Talento precocissimo, dopo aver studiato con la madre Sophie e con maestri quali Blumenfield, Horowitz si diplomò a 16 anni eseguendo il Terzo concerto di Rachmaninov in modo tale da suscitare gli entusiasmi della pur compassata commissione i cui membri, secondo quanto raccontato dallo stesso artista, alla fine dell’esame, si sarebbero alzati per rendergli omaggio. Il suo esordio come concertista nel 1920 all’Ivan Franko Gosudartsvennoj Akademicjeskij Ukrainskij Teatr di Kiev diede il la a una trionfale carriera che nel giro di poco tempo lo vide protagonista nei più prestigiosi teatri e sale da concerto del mondo dalla Scala al Musikverein di Vienna e alla Carnegie Hall di New York. Memorabile è il suo debutto nel 1928 proprio nella città americana dove, con Sir Thomas Beecham, che diresse il Primo concerto di Čajkovskij a memoria senza, però, ricordare bene la partitura e imponendo dei tempi eccessivamente lenti, Horowitz, temendo che il concerto si risolvesse in un fiasco, decise, nell’ultimo movimento, di staccare un tempo particolarmente veloce grazie al quale mise in evidenza le sue doti di virtuoso che, se, da una parte, gli permisero di conseguire un clamoroso successo personale, dall’altra suscitarono le critiche di Rachmaninov il quale, presente tra il pubblico, lo accusò di aver ceduto alla tentazione di un facile esibizionismo. Dal 1932 Horowitz iniziò un’intensa collaborazione con Arturo Toscanini del quale sposò la figlia Wanda; il loro matrimonio fu allietato dalla nascita, nel 1934, della figlia Sophie, chiamata Sonia, che purtroppo morì prematuramente nel 1975 a causa di un’overdose. Dal punto di vista della carriera la sua attività concertistica, però, non si svolse sempre in modo lineare subendo anche due interruzioni delle quali la prima, tra il 1936 e il 1939, fu dovuta a una presunta appendicite di cui riteneva di essere affetto e che volle rimuovere sottoponendosi a un intervento chirurgico che gli procurò una flebite, e una seconda, causata da problemi fisici e psicologici, durata ben 12 anni, dal 1953 al 1965. Il suo ritorno sul palcoscenico, il 9 maggio 1965, in un concerto alla Carnegie Hall, fu salutato da un grande successo, ma per Horowitz si preparava comunque una fase calante della sua carriera dovuta all’abuso di psicofarmaci che culminò con un nuovo ritiro nel 1983. Dopo due anni di riposo il grande artista ritornò ad esibirsi nel 1985 inaugurando uno dei periodi migliori della sua travagliata, ma pur grandissima carriera che, nel 1986, fu coronata dal conferimento, da parte del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, della Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza statunitense conferita ai civili. Nel 1987 tenne gli ultimi concerti pubblici di cui uno a Vienna che, testimoniato da un video, si apre con due lavori di Mozart, compositore da lui particolarmente amato, e uno ad Amburgo il 21 giugno, ma continuò a registrare fino alla morte che lo colse per un infarto il 5 novembre 1989.
Ritenuto uno dei più grandi virtuosi del pianoforte, Horowitz poteva contare su una tecnica unica e strabiliante che si basava su un totale controllo dello strumento con il quale entrava quasi in simbiosi e del quale riusciva a sfruttare tutte le potenzialità timbriche attraverso la ricerca di una grande varietà di colori ottenuta con particolari artifici tecnici. Mannino ne ricordò uno in particolare, sempre in Genii:
“«Ho visto che lei, come me, usa tutti i mezzi e gli artifici tecnici» mi disse Horowitz, «m ho notato che non ne adotta uno in particolare: per ottenere un pianissimo in modo che la nota possa avere contemporaneamente lucentezza e suono perlaceo, io uso articolare il dito con la massima forza rasentando il tasto o meglio scivolando sul tasto. Naturalmente senza affondarlo troppo, altrimenti al posto del pianissimo verrebbe fuori una stangata». Obiettai che appunto per questa ragione il procedimento era pericoloso e Horowitz: «Lo so, non è da tutti, anzi siamo in pochissimi a poterlo fare. Ma lei credo proprio che possa riuscirci»”.
Questa è solo una delle raffinatezze tecniche di cui fu capace Horowitz che fu un autentico maestro di ottave ripetute, trilli con il quarto e il quinto dito, dei tremoli e dell’utilizzo del pedale di risonanza la cui presenza, massiccia o ridotta, era sempre piegata a una ricerca espressiva di primordine. Nelle sue interpretazioni la sua straordinaria tecnica, che poteva portarlo a un puro virtuosismo, era comunque accompagnata sempre da un raro istinto musicale che rendeva le sue esecuzioni uniche.
Vastissimo fu il suo repertorio che, fondato essenzialmente sulla triade romantica formata da Chopin, Liszt e Schumann, spaziava dal Barocco e in particolar modo da Scarlatti, eseguito con una rara lucentezza di suono in un etereo pianissimo e un uso altrettanto raffinato e discreto del pedale, fino ai maestri del classicismo viennese (Haydn, Mozart e Beethoven) includendo anche compositori allora meno noti quali Skrjabin, Muzio Clementi, Kabalevskij, Barber e lavori poco eseguiti come gli studi di Debussy e le Sonate di Prokofiev. Molto particolare fu il suo approccio con alcuni lavori, tra cui, per esempio, Quadri in un’esposizione di Mussorgskij, del quale, come ricordato da Mannino, propose una vera e propria riscrittura tanto da poter essere considerato un coautore. Nell’inicisione del 1951, proposta all’inizio di questo articolo, si può notare la straordinaria capacità di Horowitz di trovare una grandissima varietà di colori.