Como, Teatro Sociale: “Macbeth”

Como, Teatro Sociale – Stagione d’Opera 2019-20
MACBETH
Melodramma in quattro atti di Francesco Maria Piave, rivisto da Andrea Maffei, tratto dall’omonima tragedia di William Shakespeare.
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth ANGELO VECCIA
Banco ALEXEY BIRKUS
Lady Macbeth SILVIA DALLA BENETTA
Dama di Lady Macbeth KATARZYNA MEDLARSKA
Macduff GIUSEPPE DISTEFANO
Malcolm ALESSANDRO FANTONI
Araldo/Medico/Domestico/Sicario ALBERTO COMES
Orchestra
I Pomeriggi Musicali
Coro OperaLombardia
Direttore 
Gianluigi Gelmetti
Maestro del Coro Diego Maccagnola
Regia Elena Barbalich
Scene e Costumi Tommaso Lagattolla
Luci Giuseppe Ruggiero
Allestimento del Teatro Nacional de S
ão Carlos di Lisbona in coproduzione con i Teatri OperaLombardia
Como, 31 ottobre 2019
Il “Macbeth” in scena nel circuito di OperaLombardia – in questi giorni on stage al Sociale di Como – ci dà la giusta occasione per tastare il polso alla regia d’opera in Italia oggi. Elena Barbalich (nome ben affermato nel nostro panorama teatrale), infatti, appronta una messinscena di tipo “prosastico“, cioè legato a diversi stilemi tipici del teatro di prosa (potrebbe infatti essere una regia perfetta anche per un “Macbeth” shakespeariano), che nel mondo dell’opera possono suonare per lo meno insoliti: ad esempio una scena semivuota, dominata solo da un grande specchio circolare che compare talvolta frammentato, altre volte intero, accompagnato da una sedia o un trono sopraelevato, incorniciata da qualche scalino sul fondo e un bel fondale materico – questi gli unici cinque elementi offerti (alternativamente) all’occhio dello spettatore. Altro elemento da teatro di prosa è senz’altro l’enorme rilevanza data alle possibilità attoriali di cantanti e coro: l’intero momento della lettera è gestita a scena vuota, così come “Ondine e silfidi” vede le coriste giocare con Macbeth come un burattino, muovendolo tirando immaginari fili; in generale siamo di fronte a un enorme impegno corale, soprattutto da parte del coro femminile, che danza, recita, mima, si arrampica e, in tutto ciò, non si scorda di cantare. Questa regia non ha nulla di sbagliato in sé, è anzi in grado di affascinare in più di un punto il pubblico. Inoltre, Barbalich non rinuncia a momenti dal taglio più operistico: i grandi finali concertati di I, III e IV atto, così come il suggestivo “Patria oppressa”, sono costruiti come tableau vivant, éscamotage molto caro alla regia lirica. I limiti di una scelta tanto netta, tuttavia, sono tre, e almeno due di essi si mostrano chiaramente nella produzione comasca: il primo è che occorre affidarsi a costumista, scenografo e light designer più che capaci, in grado di creare, nel loro ambito, modelli di pregevolissima fattura; il secondo è l’onnipresente drammaturgia musicale, cioè quello che la partitura (non il libretto) ci dice sulla scena e sulle dinamiche tra personaggi; il terzo è che si deve fare per forza affidamento sulle doti sceniche di cantanti con i quali, sovente, si può fare circa una dozzina di prove di regia, quindi cui non si può “insegnare” a recitare: occorre che sappiano già farlo, che abbiano già buona consapevolezza del proprio corpo, della geografia scenica, dell’azione teatrale. Il primo rischio viene evitato grazie agli ottimi apporti di Tommaso Lagattolla, che appresta cinematografici costumi sontuosi e azzeccati di gusto pseudogotico (non convince l’abito di paillettes viola di Lady Macbeth, adatto per un Capodanno al Vomero più che per una tragedia di tale cupezza) e delle scene scarne ma di forte impatto, e di Giuseppe Ruggiero, artefice di un progetto d’illuminazione fortemente evocativo e contrastivo, per quanto statico, che sa giocare con l’imprevedibilità della superficie riflettente dello specchio. Gli altri due aspetti problematici, invece, affliggono la resa di questa produzione: la regia in più di un momento non corrisponde alla partitura – ad esempio nella scena del banchetto, nella quale alle apparizioni del fantasma di Banco viene data una rilevanza affatto diversa da quello che l’orchestra ci dice – creando effetti di straniamento non del tutto giustificabili; e, soprattutto, la responsabilità scenica affidata ai cantanti è assolutamente spropositata per una riuscita credibile: si passa dall’impacciato al convenzionale, quando non direttamente al fissile rivolto al pubblico in proscenio – che, beninteso, sarebbe accettabile in un contesto meno pretenzioso, ma qui si scontra troppo con le intenzioni evidenti del team creativo. Unico solista che ottiene un buon risultato da questo punto di vista è Angelo Veccia, sulle cui doti in tal senso abbiamo già speso altrove parole d’elogio. Di fronte a questa discrasia tra idea registica ed effettiva realizzazione, non ci resta che godere delle prove canore offerteci, e non senza qualche riserva: Silvia Dalla Benetta (al suo debutto nel ruolo) è una Lady Macbeth perfettibile vocalmente: solida nei centri, alquanto tesa in acuto. Il fraseggio poi trova una giusta dimensione espressiva solo nel quarto atto, con risultati peraltro apprezzabili. Anche scenicamente mostra più di un limite: desta qualche perplessità la scena del sonnambulismo nella quale la cantante appare con un surreale sorriso psicotico (indicazione di regia?), quando in realtà Lady Macbeth dovrebbe essere dilaniata dai sensi di colpa, dal non riuscire a realizzare i suoi piani, dalla solitudine di un matrimonio finito in pasto alle logiche di potere. Angelo Veccia, vocalmente parlando, è un buon Macbeth, curatissimo nel fraseggio, anche se l’emissione non sempre ci appare bene a fuoco. Mantiene comunque sempre una certa nobiltà nel porgere con la quale tratteggia un personaggio convincente. Molto buona la prova del basso Alexey Birkus, che ha le tipiche caratteristiche del basso di formazione slava: intonazione precisa, buona tecnica, timbro scuro e tondo, ma interpretazione non particolarmente coinvolgente. I due tenori dell’opera, ossia Macduff e Malcolm, sono interpretati rispettivamente da Giuseppe Distefano e Alessandro Fantoni: il primo sfoggia una vocalità lirica, di bella e sicura linea di canto, ma un fraseggio un po’ sui generis. il secondo, voce più “belcantista”, ha intonazione più periclitante, ma espressivamente corretta. Apprezzabili la Dama di Katarzyna Medlarska, così come Alberto Comes, che ha coperto i ruoli dell’Araldo, Sicario, Domestico e Medico. Il M° Gianluigi Gelmetti dirige con l’usuale millimetrica attenzione per le dinamiche e le agogiche, che, almeno nel primo atto, non sembrano corrispondere alla scena – e infatti si sentono chiari scollamenti tra palco e buca. Dal secondo atto in poi, invece, si raggiunge un buon affiatamento, il nervosismo concitato di prima si scioglie in una bella disamina dei colori della partitura, e tutto prende una piega più uniforme. Come già anticipato, la prova scenica del Coro OperaLombardia ha del prodigioso, e non stentiamo a decretargli il primato qualitativo della serata; anche vocalmente si riconferma una compagine di grande coesione e capace di estrema duttilità – può ben esserne fiero il maestro Diego Maccagnola. Alla fine della serata, pare evidente che più della regia, o dei cantanti, sia l’opera stessa di Verdi ad essersi conquistata i favori dei molti applausi che esplodono: i cori potentissimi e contemporaneamente così variegati (streghe, soldati, cortigiani), i molti momenti di oscura passionalità che il libretto di Piave e Maffei sa ricreare, l’orchestrazione matura di un Verdi ormai internazionale e scevro da qualsivoglia bandismo, sanno ancora far breccia nel pubblico. E non dovrebbe forse essere questo uno degli obiettivi principali nel riproporre i classici? In fin dei conti, dunque, la serata può dirsi riuscita. Foto Alessia Santambrogio