Verona, il Settembre dell’Accademia 2019: Francesco Omassini & Miriam Prandi con l’Orchestra dell’ Arena di Verona

Verona, Teatro Filarmonico, Accademia Filarmonica di Verona, XXVIII Settembre dell’Accademia
Orchestra dell’Arena di Verona
Direttore Francesco Ommassini
Violoncello Miriam Prandi
Paul Dukas: “L’apprendista stregone”
Camille Saint-Saëns: Concerto per violoncello e orchestra n. 1 in la minore Op. 33
Georges Bizet : L’Arlésienne, Suite n. 1 e 2
Verona, 30 settembre 2019
Francesco Ommassini, direttore delle “nostre terre”, dirige un programma intrigante. Tre francesi sul menu: Dukas, figura a metà tra romanticismo ed impressionismo, Saint-Saëns, nato innovatore e morto da inespugnabile conservatore, e Bizet, l’operista dell’opera (forse) più amata di tutte. Pagine, quelle proposte, in grado di solleticare ed accattivare anche il pubblico più profano, musica juicy, diremmo in inglese, cioè succosa, eclettica e divertente, decisamente non banale. L’apprendista stregone è un poema sinfonico apparentemente impressionista, ispirato all’omonima ballata di Goethe, divenuto celebre grazie alla pellicola Disney (la “Fantasia” del 1940), e difficilmente lo si ascolta senza rivedere nella mente Topolino che fa a cazzotti con le scope stregate, sorta di stagista ante litteram costretto a ramazzare nella bottega del maestro (Goethe, si sa, era un profeta). Il brano, guizzante, birichino, sontuoso nelle sonorità ma intimamente decadente è armonicamente geniale. L’orchestra scalda bene i motori, le battute iniziali, sortilegio sonoro che si schiude su armonie esatonali, sono tessute con delicatezza ma senza troppa esitazione. Poi arriva uno squillo di cellulare, odioso, interminabile, che ci guasta il fegato e ci rovina l’inizio dell’incalzante 3/8 (in merito a ciò, siamo strenui sostenitori della strategia “C. Zacharias”: si ferma il concerto e si riparte da capo). Passato lo squillo maledetto, ma non a causa di quello, il poema sembra procedere senza fragori eccezionali, il pastrocchio dell’apprendista, a differenza dell’originale poetico, tutto sommato è divenuto gestibile. Mancano la spigolosità e l’intemperanza che questa partitura contiene: quel colpo di scopa che il mago maestro assesta sul sedere del suo incauto assistente, l’avremmo voluto sentire anche noi! I fiati d’altra parte danno una bella prova dei loro muscoli (il programma intero, a dir la verità, deve averli divertiti parecchio), e breve ma intenso è stato l’assolo di viola (lì l’apprendista accampa scuse con voce querula) prima del guizzo conclusivo. Comincia dunque il Concerto di Saint-Saëns. Due parole sulla composizione, anzi una: bella. Camille scrive “da dio”, e anche se nel profondo non è un originale (se non talvolta, occasionalmente, sbadatamente), batte tutti in forma, umorismo ed eleganza. Ci vuole però un bravo interprete per rendere giustizia alla sua musica, e a questo Concerto, rapsodico, strano, un po’ fiorito, un po’ patetico, un po’ pastorale. Per nostra fortuna, la solista, Miriam Prandi (classe ’90), non è semplicemente brava: è una stella. Perfettamente a suo agio sul palco, ha la caratura della grande artista e non ci stupiremo di fronte alla carriera internazionale che farà. Non possiamo non sperticarci nelle lodi a favore del suo stile: ricco di suono e di sfumature, assolutamente spontaneo ma non generico, intenso e voluttuoso, preciso ma sempre lirico, morbido. Un’artista autentica e libera, gioia per gli orecchi e per gli occhi: Miriam riesce pure a sistemarsi la spallina del vestito nelle pause di sedicesimo. Dopo il Concerto, per altro accompagnato con grande cura dall’orchestra, la solista confessa il suo affetto particolare per la città di Verona e le regala qualche attimo di eternità con un ormai celebre brano per violoncello e voce (quella del violoncellista stesso) del compositore léttone Peteris Vasks, “Dolcissimo”, eco di un lamento antico e struggente. La sensazione al morire delle ultime vibrazioni è di aver visto una luce, da qualche parte, tra le corde e l’archetto, o forse sulle labbra schiuse… Grazie, Miriam! Ommassini ci conduce risoluto alla fine, con le musiche di scena dell’Arlésienne, dramma di Daudet: le due suite sono capolavori nel loro genere, la prima rivista ed abbellita da Bizet stesso dopo l’iniziale insuccesso, la seconda sistemata nello stile dell’autore da Guiraud. E’ una musica adatta a tappezzare i saloni di palazzo: esotica, esuberante, variopinta, e va suonata con ininterrotta ispirazione e dionisiaca energia. Quelle che hanno latitato nell’esecuzione degli areniani e nel gesto, squadrato e poco pittorico, di Ommassini. Paradigmatico l’inizio all’unisono degli archi: decisamente lapidario e russico, senza un accenno di frase e senza brace. La resa nel complesso è alterna, quasi che i musicisti fossero risvegliati da alcune pagine ed annoiati da altre. I tempi in compenso sono buoni, gli ottoni ci danno dentro e il flauto se la cava molto bene nel secondo Minuetto, mentre il sassofono ci regala dei suggestivi assoli. Generosi e convinti gli applausi a fine programma, che richiamano Ommassini due volte ed ottengono da questi il bis dell’amabile Minuetto della prima Suite. Foto Brenzoni