Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
“FERNAND CORTEZ”
Tragédie Lyrique in tre Atti di Étienne De Jouy e Joseph-Alphonse d’Esménard
Musica di Gaspare Spontini
Prima versione: Parigi, 28 novembre 1809
Edizione critica della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi a cura di Federico Agostinelli
Nuovo allestimento del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Fernand Cortez DARIO SCHMUNCK
Télasco LUCA LOMBARDO
Alvar DAVID FERRI DURÀ
Le Grand Prêtre des Mexicains ANDRÉ COURVILLE
Moralez GIANLUCA MARGHERI
Un Officier Espagnol LISANDRO GUINIS
Deux Prisonniers Espagnols LUCA TAMANI, MASSIMO NACCARATO
Un Officier Mexicain LEONARDO MELANI
Un Marin DAVIDE SIEGA
Amazily ALEXIA VOULGARIDOU
Deux femmes de la Suite d’Amazily SILVIA CAPRA, DELIA PALMIERI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Jean-Luc Tingaud
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Cecilia Ligorio
Scene Alessia Colosso, Massimo Cecchetto
Costumi Vera Pierantoni Giua
Luci Maria Domenech Gimenez
Compagnia Nuovo BallettO di ToscanA
Coreografia Alessio Maria Romano
Firenze, 16 ottobre 2019
Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino apre la stagione in grande stile, proponendo in prima rappresentazione moderna il “Fernand Cortez”, nella sua prima redazione. Il titolo di Spontini, andato in scena a Parigi nel 1809, non è entrato stabilmente in repertorio, ha avuto sporadiche riprese, ma tutte relative ai rifacimenti che lo stesso autore ne approntò in seguito, tagliando, aggiungendo scene, spostando brani, in un lavoro durato decenni. Ora, in edizione critica a cura della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, abbiamo un’attendibile ricostruzione del testo alla base della prima rappresentazione parigina che si tenne alla presenza di Napoleone, di cui Fernand Cortez, conquistatore e liberatore, rappresentava un chiaro alter ego, un antecedente mitico del tutto funzionale alla celebrazione dell’Impero. Nell’ottica dell’opera, Cortez non sottomette il popolo messicano, anzi lo sottrae al giogo di una religione sanguinaria, al potere dei suoi sacerdoti e di un sovrano vile, quel Montezuma che viene sconfitto, senza mai comparire in scena; i messicani amano Cortez e prendono le armi al suo fianco per espugnare la città regale e il tempio che rappresenta l’oppressione di una casta superstiziosa e fanatica su un popolo generoso. Amazily, la donna messicana amata da Cortez, rappresenta, nella sua devozione eroica al condottiero, il riconoscimento di una superiorità magnanima, che anche i suoi connazionali, ingenui e puri di cuore secondo il mito del “buon selvaggio”, avvertono istintivamente, alleandosi con gioia al semidio bianco. È una realtà edulcorata, celebrativa appunto, sulla quale Spontini allestisce una colossale Tragédie Lyrique dal tono epico e marziale, intessuta di eroismo, di temi politici, con lunghe pagine corali e di balletto, inni di battaglia, grandiose scene di manovre militari; ci si avvicina così a grandi passi verso il Grand Opera, che dominerà la scena francese per tutta l’età romantica, anzi il Fernand Cortez si può per molti aspetti considerare anticipatorio o di transizione verso il nuovo genere che resterà in voga fino quasi alla fine del XIX secolo. I toni del grigio e del nero illuminati da bagliori ferrigni o argentei caratterizzano scenografie e costumi di grande eleganza e pulizia, che con sobrietà di mezzi riescono a materializzare l’opportuna grandiosità e ricchezza. Le scene collettive in cui entrano i toni aranciati dei costumi aztechi, riempiono l’occhio, non per ridondanza, ma per armonia di forme, tinte e movimenti. I balletti – lunghissimo e articolato quello del primo atto, che mostra la sensualità piena di grazia delle donne messicane contrapposta alla virilità prepotente e sgarbata dei soldati spagnoli, più breve e più astratto quello che chiude l’opera – sono interessanti nella concezione e ben eseguiti dal Nuovo Balletto di Toscana. Si tratta di uno spettacolo decisamente bello dal punto di vista visivo, in cui le luci di Maria Domenèch Gimenez conferiscono fascino e mistero agli elementi scenografici, spesso bidimensionali, di Alessia Colosso e Massimo Cecchetto; i costumi di Vera Pierantoni Giua hanno un forte impatto di insieme per i riverberi metallici e le macchie di colore vivace, ma sono curati analiticamente in tutti i dettagli, tessuti, fogge, inserti e accessori. La regia di Cecilia Ligorio punta allo stesso modo sulla pulizia, sull’essenzialità; non rischia movimenti di masse complicati o difficili, non mette in campo idee anticonvenzionali o estreme, trovate sensazionali o dalla riuscita incerta; tratta protagonisti e masse in modo razionale, in sostanziale aderenza con le indicazioni del libretto, e lo fa in maniera solida e sicura: i caratteri sono sbalzati con la dovuta potenza, la drammaturgia funziona. Funziona nel complesso anche la parte musicale, Jean-Luc Tingaud è bravo a rendere il tono magniloquente, l’impeto guerriero, con tempi spediti e grande ampiezza dinamica, da pianissimi dalla sonorità impalpabile a fortissimi turgidi di suono sfolgorante, ed è bravo nel complesso anche a tenere le redini, senza perdere di vista l’architettura complessiva. Qui e là, tuttavia, si verifica qualche inciampo nella concertazione, nell’orchestra, tra orchestra e palco e in particolare negli interventi del coro che segnano qualche imprecisione, qualche piccola rincorsa; sono scollamenti episodici che si riassorbono in poche battute. Al di là di questo le prestazioni dell’Orchestra del Maggio e del Coro, impegnato a lungo in maniera massiccia, sono di alto livello, come di consueto. La compagnia di canto è piuttosto equilibrata, presenta diversi punti di interesse e qualche criticità. Fernand Cortez è un personaggio monolitico, un conquistatore di grande carisma, che, esprimendosi totalmente nel declamato in zona centrale, richiede un tenore baritonale che abbia una prima ottava tonante, cosa che Dario Schmunck assolutamente non è: la sua è una voce lirica di medio peso fatta per sospirare d’amore nelle astrali tessiture donizettiane e belliniane. Però Schmunck è un cantante esperto e un artista di classe, che nei limiti della sua vocalità e senza mai cedere alla tentazione di forzare il suo strumento, riesce con la dizione e il fraseggio a rendere il carattere roccioso del personaggio, arrivando alla fine della recita ancora tonico e fresco. Alexia Voulgaridou, già apprezzata dal pubblico fiorentino per la sua Santuzza tragica e introversa, è a suo agio in un ruolo di tessitura media, che le permette di dispiegare nelle sue diverse sfumature uno strumento caldo, di colore ambrato e dalla proiezione sonora efficace; la parte è lunga e onerosa, di tanto in tanto si avverte un po’ di tensione e qualche frase “al risparmio”, ma nel complesso la sua prestazione è decisamente onorevole. Luca Lombardo, nei panni di Telasco, è un fine fraseggiatore dalla dizione nitidissima, lo strumento però è flebile e nasale, non del tutto gradevole. Molto belli risultano gli accenti elegiaci che David Ferri Durà presta al suo Alvar con una calda mezzavoce. Il personaggio di Moralez, confidente di Cortez, acquista pieno risalto nell’interpretazione di Gianluca Margheri, dotato di imponente presenza scenica e di voce timbrata e sonora. André Courville si impegna a fondo, ma lo strumento chiaro e affettuoso si addice poco al canto ieratico e terribile del Gran Sacerdote. Professionali e corretti, complessivamente all’altezza della situazione sono gli interpreti dei molti ruoli minori. Quattro ore e più di spettacolo sono molte e il titolo non è certo popolare, diverse poltrone sono quindi vuote, tuttavia gli applausi al termine dell’opera sono sonori e convinti; Alexia Voulgaridou raccoglie un piccolo trionfo, ma tutti gli interpreti e il direttore sono festeggiati con calore. Foto Michele Monasta