Sassari, Teatro Comunale – Stagione Lirica 2019
“PAGLIACCI”
Dramma in un Prologo e due atti di Ruggero Leoncavallo
Musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda MARTA TORBIDONI
Canio ANTONELLO PALOMBI
Tonio STEFANO MEO
Peppe MARCO PUGGIONI
Silvio ZOLTAN NAGY
Primo contadino FABRIZIO MANGATIA
Secondo contadino CLAUDIO DELEDDA
Orchestra e Coro dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Coro delle Voci Bianche Corale “Luigi Canepa”
Direttore Sebastiano Rolli
Maestro del coro Antonio Costa
Maestro del coro delle voci bianche Salvatore Rizzu
Regia Paolo Gavazzeni, Piero Maranghi
*Scene Cristina Cherchi, Andrea Gennati, Michela Iaquinto, Virginia Zucca
Costumi Luisella Pintus
Light designer Tony Grandi
*Allievi del corso di Scenografia e Costume per lo Spettacolo dell’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari, coordinati dai docenti Dario Gessati, Luisella Pintus, Monia Mancusa, Oscar Solinas
Nuovo allestimento dell’Ente Concerti “Marialisa de Carolis” in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari
Sassari, 18 ottobre 2019
Si adegua nella brevità alla capacità di attenzione del pubblico televisivo la seconda proposta dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis per la stagione lirica 2019. Per la verità rompere l’unità di tradizione verista Cavalleria rusticana – Pagliacci non è da tempo un tabù: permette di concentrarsi meglio sulle notevoli qualità della partitura di Leoncavallo (quasi sempre messa in ombra nell’immediatezza da quella di Mascagni), lascia maggior libertà all’invenzione scenotecnica e poi, in fin dei conti, anche La Bohème sta abbondantemente sotto le due ore di musica effettiva. Comunque sia il pubblico, stavolta decisamente numeroso e partecipe, ha chiaramente apprezzato un’opera coincisa e raffinata, troppo spesso ridotta a incisi musicali da spot pubblicitario.
I ricchi colori orchestrali, l’uso di un’armonia spesso sofisticata e arricchita dall’uso del cromatismo (più melodico che sostanziale per la verità) e una drammaturgia intensa dello stesso compositore non scevra da alcuni risvolti estetico-filosofici, ne fanno uno dei frutti più interessanti del wagnerismo da Giovane Scuola Italiana. Chiaramente certi temi, per rimanere all’ambientazione meridionale, saranno trattati di lì a pochi anni con ben altra profondità nell’opera di Pirandello, ma hanno fatto bene i registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi a costruire uno spettacolo ripulito (quasi) del tutto dagli orpelli decorativi veristici e concentrato soprattutto sui due momenti topici dello “sfondamento” della cosiddetta quarta parete teatrale, non a caso i più conosciuti anche dal punto di vista musicale. Il primo è chiaramente costituito dal prologo, dove il cantante (di tradizione quello che interpreterà la parte di Tonio, ma in realtà impersonale) si rivolge direttamente al pubblico anticipando i temi del dramma. Il secondo è stato inventato nell’occasione sull’iconico Vesti la giubba, che del prologo riprende alcuni aspetti, dove la regia ha previsto la ben conosciuta ma efficace soluzione di porre il protagonista al di fuori del sipario chiuso, in un evidente richiamo all’introduzione dell’opera e alla sua ambiguità extra-teatrale. Le linee semplici delle scene, di Cristina Cherchi, Andrea Gennati, Michela Iaquinto e Virginia Zucca, ispirate all’opera del pittore Felice Casorati, sono apparse funzionali e ben realizzate dall’Accademia di Belle Arti di Sassari “Mario Sironi”; coi loro colori bruni, indefiniti, sembravano voler accentuare l’aspetto severo e terragno dell’allestimento, vivacizzato giusto dai bei costumi di Luisella Pintus e dalle luci di Tony Grandi. Non è apparsa altrettanto interessante e coerente la gestione della recitazione sul palcoscenico: sia il coro che gli interpreti avevano movimenti ridotti al minimo e piuttosto stereotipati, con i consueti meccanismi che hanno portato il tutto nei binari di una tradizionale convenzionalità ma senza trovare il necessario accumulo di tensione per il finale. Comunque lo spettacolo nel suo complesso si è dimostrato efficace e piacevole, specialmente in considerazione del notevole risultato raggiunto dagli studenti dei corsi di Scenografia e Costume dell’Accademia, sotto la guida dei loro docenti. Ha convinto anche la direzione musicale di Sebastiano Rolli che, oltre a concertare l’opera con pulizia e precisione, è riuscito a valorizzare alcune delle linee secondarie di cui la partitura è ricca; sono apparsi inoltre col giusto rilievo e realizzati impeccabilmente i soli, come quelli affidati a violino e violoncello, talvolta coperti o tirati via senza la corretta espressione in produzioni ben più importanti. È stato interessante inoltre l’aspetto teatrale: inutile eseguire correttamente tutto ciò che è scritto senza un’evidente aderenza espressiva al senso di ciò che succede in scena. A questo proposito è stata emblematica la studiata leziosità dell’accompagnamento alla Commedia che, senza bisogno di troppi artifici scenici, ben isolava il momento metateatrale da quello del dramma. Complessivamente solida la compagnia di canto, omogenea e senza particolari punti deboli, che ha avuto il suo punto di forza nel Canio di Antonello Palombi: vocalità omogenea, ottima proiezione degli acuti, potenza e discreta varietà espressiva ne fanno un interprete ragguardevole, talvolta un po’ appesantito da manierismi di tradizione (quella brillantemente definita “l’insieme delle cattive abitudini”) di cui si farebbe volentieri a meno. Vesti la giubba e i dialoghi con Nedda sono stati dei momenti di vera intensità di cui sono state ammirevoli le mezze voci insinuanti non meno degli acuti sicuri e squillanti; peccato per certe vocali aperte e alcuni singhiozzetti in agguato, che funzionano ancora col pubblico di bocca buona ma che al giorno d’oggi appaiono decisamente vintage.Marta Torbidoni, nel ruolo ingrato di Nedda, ha dimostrato un buon bagaglio tecnico e la vocalità adatta a un personaggio che, probabilmente, avrebbe meritato un maggior approfondimento da parte dell’autore. Sono apparsi comunque sufficientemente differenziati i vari momenti espressivi e, anche grazie ai centri pieni e al colore naturalmente scuro, ha ben figurato nel confronto col protagonista. Adeguato per vocalità e temperamento il Tonio di Stefano Meo, con qualche disomogeneità nella zona del passaggio e negli acuti ma, nel prologo, è stato ammirevole, soprattutto per la qualità delle mezze voci in un brano di estensione scomoda per qualunque baritono. È stato intenso e vario espressivamente anche nei dialoghi, ma talvolta dovrebbe accordarsi meglio col direttore nelle chiuse e nelle variazioni agogiche. Marco Puggioni ha ben interpretato il personaggio di Peppe ma, soprattutto, si è rivelato adattissimo nel colore per l’espressione astratta e trasognata richiesta nella serenata di Arlecchino. Bella e importante la vocalità di Zoltan Nagy nel ruolo di Silvio, da valorizzare subito in ruoli più importanti, e sono stati precisi e disinvolti Fabrizio Mangatia e Claudio Deledda, meritatamente inseriti in un cast indubbiamente valido. L’orchestra dell’Ente concerti ha dimostrato ancora una volta il suo valore e buona anche la prestazione del coro istruito da Antonio Costa, ottimo nelle mezze voci ma talvolta squilibrato tra batterie acute e quelle gravi nelle dinamiche più spinte. Sono apparse infine veramente a punto le voci bianche della Corale Canepa preparate da Salvatore Rizzu: compatte, equilibrate e precise nei loro interventi.