Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2018/2019
“GIULIO CESARE IN EGITTO”
Dramma in musica in tre atti su libretto di Nicola Francesco Haym e Giacomo Francesco Bussani
Musica di Georg Friedrich Händel
Romani
Giulio Cesare BEJUN MEHTA
Curio RENATO DOLCINI
Cornelia SARA MINGARDO
Sesto PHILIPPE JAROUSSKY
Egizi
Cleopatra DANIELLE DE NIESE
Tolomeo CHRISTOPHE DUMAUX
Achilla CHRISTIAN SENN
Nireno LUIGI SCHIFANO
Coro e orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici
Direttore Giovanni Antonini
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Robert Carsen
Scene e costumi Gideon Davey
Luci Robert Carsen e Peter van Praet
Coreografie Rebecca Howell
Nuova produzione del Teatro alla Scala
Milano, 25 ottobre 2019
Giulio Cesare il conquistatore non era mai riuscito a conquistare la Scala; della più nota e amata delle opere di Händel si contava infatti finora un unico allestimento nel 1956 per sole quattro recite e con una realizzazione legata al gusto del tempo e priva di qualunque legame con la prassi esecutiva barocca; per il resto nessuna esecuzione precedente – neppure risalendo a tempi storici – e nulla di successivo. È quindi quanto mai meritoria la scelta di aprire il progetto di un trittico händeliano con questo titolo fondamentale e così assente dal palcoscenico milanese. Il progetto originario avrebbe avuto come elemento di continuità tra i tre spettacoli la presenza di Cecilia Bartoli come Cleopatra e di Robert Carsen come responsabile delle regie. Dopo il forfait del mezzosoprano romano a rappresentare la linea della continuità è rimasto il solo regista canadese.
Carsen sa entusiasmare o deludere ma di certo non è mai un regista “banale”; questa volta si ferma a metà del guado con uno spettacolo che alterna momenti perfettamente riusciti ad altri che lasciano maggior perplessità. A parere dello scrivente Carsen rende al meglio quando punta sull’essenzialità come in molti – insuperati e insuperabili – allestimenti dell’opera del Novecento mentre tende un po’ a perdersi quando a emergere è la sua parte barocca come in parte avvenuto anche in questa produzione.
L’attualizzazione del contesto sembra ormai diventata un obbligo e non stupisce in questi tempi dove a dominare è la cultura del presente, dell’hic et nunc, dell’istante effimero come misura di tutte le cose in cui il pensare storicamente e quindi con un approccio più profondo viene visto quasi come una minaccia e tutto si riporta sul piano senza profondità dell’istante compiuto in se stesso. Ecco quindi i romani trasformati in un non ben edentificato esercito moderno, gli egizi in arabi, mentre il petrolio domina tutto come unico fine: il tutto visto con la rassicurante conoscenza di un telegiornale di mezza sera. Carsen fortunatamente è però sempre un professionista che conosce come pochi il mestiere e lo sa mettere in pratica. La cura nella recitazione è impressionante; non c’è un gesto o un accenno che non sia calcolato, non un singolo interprete che non si muova con la più assoluta naturalezza ancor più impegnativa in un approccio fortemente cinetico alla narrazione. Carsen sa lavorare sulle psicologie: in tutti i personaggi – specie nei più giovani – è evidente una maturazione progressiva nel corso dell’opera, una presa di coscienza del proprio ruolo. Accettato l’impianto di fondo, molti momenti sono ben realizzati: la scena sesta del I atto con le bizze dei giovani principi rende bene il clima di quel momento, costituito da contese tra i “re fanciulli” di Alessandria con cui il Senato accusava Cesare di perder inutilmente tempo; l’atmosfera che domina la reggia, dove si assiste alle progressive contaminazioni esterne dell’Egitto ellenistico, qui trasformato tra Oriente e Occidente ma anche fra passato e presente ( i richiami ai geroglifici che però rappresentano carri armati e divinità armate di mitragliatori). Altrove la regia appare controversa, in quanto “Giulio Cesare in Egitto” è principalmente un dramma eroico, che poco concede al “comico” e presenta pochi momenti sfruttabili in tal senso. Carsen però non resiste alla vena ironica e sarcastica. Il gioco funziona bene in “Adoro pupille” con l’omaggio alle grandi dive cinematografiche che hanno vestito i panni di Cleopatra (Colbert, Leight e Taylor ), altrove, ad esempio nella scena dello scambio dei doni assurdi tra le delegazioni egizie e romane, appare un po’ forzato. Belle le scenografie degli interni con il palazzo pseudo-egittizante, meno gli esterni con foto di deserti sempre uguali e di scarso impatto visivo, escludendo il poetico cielo stellato che sembra vegliare sulle riflessioni di Cesare in “Alma del gran Pompeo”. Belle le luci, un po’ invadenti le coreografie di Rebecca Howell. Sul piano musicale si apprezza molto la concertazione di Giovanni Antonini che dirige con gusto moderno ma senza gli eccessi di taluni specialisti. Il maestro milanese offre una lettura dai toni sfumati della partitura, pur non trascurando le necessarie accensioni quando richiesto e restituendo, così, un universo espressivo più lirico che eroico. I tempi sono spesso distesi – specie nelle arie intime. Antonini valorizza al massimo i colori della scrittura händeliana, utilizzando con grande efficacia i rapporti dinamici a scopo espressivo. La sua è una lettura forse meno spettacolare ma di grande raffinatezza e resa che si segnala per una musicalità impeccabile. Gli strumentisti della Scala su strumenti storici – salvo per qualche piccola imprecisione – mostrano un suono ricco, morbido, in linea con il taglio direttoriale.L’uso esclusivo di controtenori può sucitare qualche perplessità ma trova forse la sua spiegazione principalmente nelle necessità registiche in virtù di un sempre più marcato realismo che rende poco credibile la presenza di donne “en travesti”. La parte di Cesare con la sua urgenza espressiva sembra, però, la meno adatta a questo tipo di vocalità. Di fatto, pur cantando in modo impeccabile, Bejun Mehta non riesce forse a rendere al meglio la varietà espressiva del personaggio. La voce non è grande ma è proiettata bene, “corre” bene anche in una sala ampia come quella scaligera; la tecnica è impeccabile così come la qualità musicale della linea di canto, anche se il timbro è forse un po’ chiaro, quasi sopranile e appare fragile nel settore grave. Le agilità sono affrontate con precisione esemplare e si nota una netta predisposizione per i passaggi “di grazia”, mentre più sfocati appaiono quelli di forza. Sul piano interpretativo il suo Cesare predilige i toni lirici sentimentali e in questo si trova in piena sintonia con la direzione di Antonini. Per questa ragione il suo Cesare emerge nell’impeccabile esecuzione di “Se in fiorito ameno prato”, nell’abbandono sensuale del duetto con Cleopatra o nell’intensa commozione della riflessione sull’urna di Pompeo mentre semnbra che giochi in difesa nei momenti più eroici. Il controtenore si adatta invece a un personaggio come Tolomeo la cui doppiezza è quasi evocata da quel sentore d’innaturalità, di manierismo che sempre accompagna questa vocalità. Ancor meglio se a interpretarlo è Christophe Dumaux che del ruolo ha fatto un cavallo di battaglia. Voce di bella sonorità, robusta e compatta, tecnica raffinata, straordinaria ricchezza di un fraseggio, che coglie ogni incoerenza e ogni nevrosi di questo personaggio così straordinariamente moderno. Terzo controtenore, Philippe Jaroussky, alle prese con Sesto, può sfoggiare una voce molto chiara, ideale, quindi, per il carattere giovanile del ruolo. L’interprete è notevole nel rendere la progressiva maturazione umana del giovane patrizio, nonostante vocalmente non sia parso al meglio e il timbro non sempre risulti gradevole. Si è percepito un senso di stanchezza, con qualche durezza in acuto, accanto a una gestione del canto di coloratura sempre ben calibrato. Danielle de Niese è una Cleopatra veramente regale. In primo luogo in teatro la voce è di una potenza e di una ricchezza che le registrazioni lasciano solo intuire; il timbro è, inoltre, sempre bellissimo e strepitosa la personalità scenica. Certo, rispetto all’edizione di Glyndebourne con Christie la voce ha perso un po’ in smalto e leggerezza, ma l’esperienza ha ulteriormente accresciuto le qualità di interprete. La sua è una Cleopatra dal grande magnetismo scenico, al tempo stesso sensuale e calcolatrice, pugnace e fragile.Veterana del ruolo di Cornelia, Sara Mingardo è un’autentico contralto dal timbro splendido e dall’innata nobiltà d’accento che, però, soffre purtroppo dei tagli operati alla parte tali da riddurne la forza teatrale. In ogni caso la Mingardo fraseggia con rara intelligenza riuscendo ad evitare il rischio d’un’eccessiva uniformità espressiva.
Christian Senn, con buona linea di canto, mostra grande energia nel ruolo di Achilla affrontato con vocalità baritonale più che di autentico basso. Positive le prove di Renato Dolcini (Curzio) e Luigi Schifano (Nireno).