Antonio Vivaldi (1678-1741):”Gloria” RV 589; “Nisi Dominus” RV 608; “Nulla in mundo pax” RV 630. Julia Lezhneva (soprano), Franco Fagioli (contralto), “I Barocchisti”, Diego Fasolis (direttore).1 cd Decca 8125547
E’ dedicato ad alcuni dei titoli sacri più noti e amati di Vivaldi questo nuovo CD Decca che con qualità di suono veramente stupenda presenta il “Gloria” RV 589 per coro, soprano e contralto e due cantate sacre solistiche, “Nisi Dominus” RV 608 per contralto e “Nulla in mundo pax” RV 630 per soprano.
A reggere con sicurezza le composizioni troviamo la mano esperta di Diego Fasolis alla guida dei sui complessi d’elezione l’orchestra I barocchisti e il Coro della radiotelevisione svizzera che con il maestro ticinese vantano una collaborazione pluridecennale e una ormai totale comunanza di vedute interpretative.
Quello che colpisce in primo luogo è la brillantezza della direzione che trova pieno riscontro nelle sonorità orchestrali. Una scelta che esalta la ricchezza della scrittura vivaldiana a costo di sacrificare un po’ lo spirito sacro delle composizioni per valorizzarne il valore più profanamente musicale e virtuosistico. Il direttore opta per scelte dinamiche molto brillanti, ritmi sostenuti, forti contrasti espressivi. I brani orchestrali hanno una brillantezza che li avvicina ai migliori esempi dei concerti vivaldiani e l’uso della voce si avvicina decisamente a modalità operistiche.
La parte vocale è affidata a due dei maggior virtuosi barocchi dei nostri tempi: Julia Lezhneva (soprano) e Franco Fagioli (contralto). I due forniscono un ottimo contributo nella riuscita complessiva del “Gloria” duettando con perfetta armonia vocale nel “Laudamus te” e cominciano a mostrare le proprie qualità nelle arie solistiche in attesa di dar fuoco alle polveri nelle due grandi cantate.
“Nisi Dominus” è probabilmente il brano più riuscito fra quelli proposti. E’ una grande cantata per contralto e orchestra caratterizzata da uno stile molto teatrale, dall’alternanza di sezioni vocalmente ed espressivamente contrastanti, da un uso molto libero delle forme. Il brano ricorda alcune delle più originali soluzioni operistiche di Vivaldi come la grande scena della follia in “Orlando Furioso” caratterizzata da un uso altrettanto libero e frammentato dei modelli e dei generi espressivi.
Splendida la prova vocale di Franco Fagioli: il cantante argentino mostra ancora una volta di possedere qualità rare che lo elevano dal pur buon livello complessivo dei falsettisti contemporanei. La voce ha una compattezza e un’omogeneità in tutti i registri davvero ammirevole e colpisce la ricchezza di suono del registro grave con sonorità da autentico contralto. Il timbro mantiene inoltre un carattere virile, non eccessivamente femmineo e, quindi, non privo di suggestione. La ricchezza del fraseggio, dell’accento e il gioco dei colori si apprezzano soprattutto nei momenti più liricamente espressivi dove Fagioli fa valere tutta la sua qualità di interprete. Brani come “Vanum est vobis” o “Cum dederit” fanno emergere come meglio non si potrebbe le doti di Fagioli che è però pronto anche ad esibire un notevole virtuosismo nei brani più brillanti.
“Nulla in mundo pax” è un grande crescendo virtuosistico che dal canto disteso di “Nulla in mundo pax” avanza fino ai fuochi artificiali dell’”Alleluja” finale. Particolarmente interessante la sezione “Blando colore”, un recitativo accompagnato che si apre ad improvvisi squarci melodici e improvvise accensioni virtuosistiche. La voce della Lezhneva non è classicamente bella; il timbro è sicuramente molto personale e subito riconoscibile e non di immediata seduzione. Specie nei momenti più cantabili si ritrovano riflessi metallici di primo acchito non così piacevoli. La qualità del canto è però indiscutibile così come la facilità assoluta con cui affronta e risolve anche i maggiori cimenti. In questo senso la composizione permette alla cantante di crescere con l’aumentare delle difficoltà fino alla funambolica cascata di note conclusiva che non può che lasciare ammirati.
Carl Heinrich Graun (1703-1759):”Sento una pena”, “Il mar s’inalza e freme”, “D’ogni aura al mormorar” (L’Orfeo); “Sforzero d’avverso mare” (Ifigenia in Aulide); “Senza di te, mio bene” (Coriolano); “La gloria t’invita”,”A tanti pianti miei”(Armida); “Piangete, o mesti lumi” (I Mithridate); “Parmi, ah no! Pur troppo, o Dio!”, “No, no di Libia fra l’arene” (Cinna); Sinfonia (Rodelinda); “Mi paventi il figlio indegno” (Britannico). Julia Lezhneva (soprano), Concerto Köln, Mikhail Antonenko (direttore). 1 Cd Decca 6210718
Individualmente i due cantanti protagonisti del CD vivaldiano della Decca si ritrovano in due recital dedicati al repertorio barocco rispettivamente Decca (Julia Lezhneva) e DG (Franco Fagioli).
Carl Heinrich Graun è stata figura non secondaria della vita musicale tedesca negli anni compresi fra il termine della stagione händeliana e l’emergere dei grandi riformatori neoclassici negli ultimi decenni del secolo, stagione che si caratterizza come quella del pieno trionfo dell’opera seria italiana in tutte le regioni dell’Europa Centrale. Nato in Sassonia nel 1704 da una famiglia di estrazione medio-borghese con spiccate attitudini musicali – tutti e tre i fratelli Graun furono musicisti –, Carl Heinrich si distinse per un precoce talento di cantante e per una carriera quasi fulminea. Nel 1725 – poco più che ventenne – sostituisce Johann Adolf Hasse come tenore per il teatro di corte a Brunswick cominciando ad affiancare l’attività di compositore a quella di esecutore e spesso comparendo come interprete delle proprie composizioni. Se Brunswick è già una collocazione di un certo prestigio, la vera svolta per la carriera di Graun avvenne quando venne chiamato a Berlino dal principe Federico di Prussia, il futuro Federico il Grande, cultore di musica e apprezzabile compositore egli stesso. Con la salita al trono di Federico arriva la promozione a Maestro di Cappella (1740) che farà di lui l’autentico arbitro della vita musicale prussiana – anche in virtù della sincera amicizia che sempre lo legò al sovrano – fino alla morte avvenuta nel 1759.
Quasi dimenticato – alcune isolate arie furono recuperate negli anni 60-70 del Novecento da Joan Sutherland – come molti compositori del suo tempo, Graun ha però attirato l’attenzione di Julia Lezhneva, giovane ma ormai affermata protagonista della scena barocca contemporanea. Entusiasta dopo aver eseguito l’aria “Mi paventi il figlio indegno” da “Britannico” in occasione di un concerto al castello di Sansoussi a Postdam, la Lezhneva si è particolarmente interessata alla musica di Graun e da questo colpo di fulmine nasce il presente album che ha almeno il merito di attirare l’attenzione sull’arte di questo compositore.
La forma scelta non è forse al riguardo la migliore. Un’opera integrale o almeno un repertorio per voci diverse avrebbe dato un quadro più completo dell’arte di Graun rispetto alle undici arie per soprano qui proposte, interrotte solo da un intermezzo rappresentato dalla sinfonia della “Rodelinda”. Il rischio con un programma di questo tipo è quello di una certa monotonia anche perché qualche cosa latita in questa musica. Si ascoltano un altissimo mestiere, una conoscenza tecnica impeccabile, una vocazione al più impressionante virtuosismo vocale – il tenore Graun sapeva come esaltare al massimo le possibilità della voce – ma sarebbe vano ricercare quella scintilla di genio, quell’illuminazione improvvisa che separa l’artista di genio dal nobile artigiano musicale.
Julia Lezhneva è sicuramente una stella della scena barocca ma forse è una delle cantanti meno adatte a un programma come questo difettando sul terreno espressivo. Tecnicamente mostruosa la Lezhneva affronta con urania facilità autentici trionfi virtuosistici, caleidoscopiche cascate di note come quelle previste da brani come “No, no di Libia fra l’arene” da “Silla” o “Il mar s’inalza e freme” da “L’Orfeo” senza mostrare la minima difficoltà.
Purtroppo la tecnica da autentica virtuosa nasconde in parte le lacune del materiale di base: voce piccola, priva di autorevolezza nei passaggi in cui si richiederebbe maggior corpo e un timbro metallico, a tratti vetroso, non compensano quello che è forse il maggior difetto della cantante, consistente in una mancanza di varietà espressiva, in un essere troppo se stessa e troppo poco il personaggio affrontato. Sfavorita al riguardo da una dizione al limite dell’incomprensibile, l’interpretazione è spesso monocorde; piatto è, inoltre, il fraseggio e povero è il gioco di colori specie considerando che la voce della Lezhneva è già limitata al riguardo. Ovviamente a soffrirne maggiormente sono i brani più cantabili ed espressivi – non a caso in palese inferiorità numerica nel programma – come “Piangete, o mesti lumi” de “Il Mithridate” o “Senza di te, mio bene” da “Coriolano”. Questi difetti si ripercuotono, però, anche nei brani di maggior virtuosismo dove la coloratura è sì funambolica ma resta un sentore di meccanicità, un’incapacità a trasformarla in strumento espressivo. Di contro a volte la ricerca di una maggior drammaticità la porta a strafare con effetti fin troppo plateali.
Forse il brano più riuscito è la conclusiva “Mi paventi il figlio indegno”, da cui è scaturito l’intero progetto. Autentico tour de force per la cantante, questo brano è affrontato con una convinzione e uno slancio ammirevole che, se non cancellano in toto i difetti altrove riscontrati, sono in parte compensati da un’energia e un’identificazione superiore a qualunque altro brano affrontato.
Diretto da Mikhail Antonenko, il Concerto Köln suona con grande energia e brillantezza, a volte quasi fin eccessiva ma sempre con grande slancio tanto che forse proprio la sinfonia della “Rodelinda” risulta essere il momento più autenticamente compiuto di tutta la registrazione. Georg Friedrich Händel (1685-1759): “Agitato da fiere tempeste” (Oreste); “Frondi tenere…Ombra mai fu”, “Crude furie degli orridi abissi” (Serse); “Cara sposa, amante cara”, “Venti, turbini, prestate” (Rinaldo); “Se potessero i sospir’ miei” (Imeneo); “Sento brillar nel sen” (Il Pastor fido); “Pompe vane di morte…Dove sei amato bene” (Rodelinda); “Se in fiorito ameno prato” (Giulio Cesare); “Scherza infida, in grembo al drudo”, “Dopo notte, atra funesta” (Ariodante); “Ch’io parta?” (Partenope). Franco Fagioli (contotenore), “Il Pomo d’Oro”, Zefira Valova (direttore). 1 CD DGG 8001558
Ben altra qualità esecutiva presenta nel complesso il recital di Franco Fagioli. In primo luogo a fare la differenza è la qualità delle musiche: rispetto al pur alto professionismo di Graun appare subito evidente la diversa statura di Händel sia per capacità inventiva sia per senso della melodia.
Superiore anche la compagine orchestrale, in quanto al pur valido complesso tedesco dell’incisione della Lezhneva si sostituisce qui l’orchestra Il pomo d’oro che già aveva entusiasmato nella registrazione completa del “Serse” e che qui mostra la stessa qualità esecutiva unendo alla brillantezza e all’energia riconosciuti al Concerto Köln una morbidezza di suono e una bellezza di colori ancora superiore. In luogo del direttore abituale Maxim Emelyanychev troviamo la violinista bulgara Zefira Valova che non solo dirige con ottimo gusto e grande sensibilità musicale ma si affianca splendidamente a Fagioli nelle arie con violino obbligato.
Il repertorio scelto prevede sia brani molto noti sia altri di ascolto molto più raro ma non meno interessanti. Si apre con “Agitato da fiere tempeste” da “Oreste” con cui Fagioli presenta le sue qualità sul versante virtuosistico come l’ampiezza dell’estensione, la facilità nel canto di coloratura, l’omogeneità in tutti i registri che è forse il tratto che colpisce di più nell’artista insieme alla pienezza autenticamente contraltile del settore medio-grave.
Poco d’aggiungere sulle arie del “Serse”, entrambe molto celebri e per le quali si rimanda alla registrazione completa dell’opera da cui non si allontanano. Dal “Rinaldo” il primo grande successo londinese di Händel sono scelte le due arie più celebri. In specie “Cara sposa, amante cara” si rivela il terreno perfetto per le doti di Fagioli che non è solo – o soprattutto – un virtuoso ma un vero artista capace come pochi di rendere al meglio queste arie meno spettacolari ma ancor più complesse nel trasmettere tutte le ragioni di quella retorica degli affetti che del barocco è componente essenziale e che qui emerge senza il paracadute che spesso offre la coloratura. Ma le doti di interprete non emergono solo nei brani più centrati sul dato interpretativo; Fagioli è fra i pochi ad aver chiarissimo il valore espressivo del canto di coloratura e di saperne sfruttare a riguardo le possibilità anche in momenti vocalmente estremi come nel caso di “Venti, turbini, prestate” capace di trasmettere come pochissime altre volte tutto il senso di urgenza che domina l’animo del cavaliere crociato.
Dal “Giulio Cesare in Egitto” non si scelgono invece i brani più noti; non vi è, infatti, nessuna delle arie eroiche più celebri ma anche più scontate. Al loro posto è possibile apprezzare “Se in fiorito ameno prato” deliziosa scena galante con violino obbligato che arricchisce di sfumature l’insieme della prestazione di Fagioli. Merita una menzione la grande scena di Bertarido da “Rodelinda regina dei Longobardi”; il recitativo “Pompe vane di morte” è, infatti, permeato di un’austera essenzialità, di una virile sofferenza pienamente degna di una nobile figura reale, mentre l’aria “Dove sei amato bene” non solo è cantata splendidamente ma con una sincerità espressiva, con un senso di composta e autentica commozione quale forse mai questo brano aveva avuto. Altro titolo fondamentale del teatro händeliano è “Ariodante”. Come per il “Rinaldo”, sono proposti due brani, la celebre “Scherza infida” di taglio lirico e cantabile e un’aria di furore come “Dopo notte, altra e funesta“, vero banco di prova delle doti virtuosistiche del cantante anche per la lunghezza di oltre sette minuti.
Gli altri brani vengono da opere meno note ma non per questo inferiori di qualità. Semplicemente splendida “Se potessero i sospir’ miei” da “Imeneo”, un magnifico andante cantabile dalla melodia mollemente sensuale che le sonorità terse e setose de Il pomo d’oro esaltano alla perfezione e su cui si dipana il canto elegantissimo di Fagioli, tutto impostato su un magistrale controllo del fiato. Completano il programma “Sento brillar nel sen” da “Il Pastor fido”, leggera e brillante e “Ch’io parta?” da “Partenope”, un’altra aria patetica con cui Fagioli chiude il programma salutando gli ascoltatori con un brano che esalta la sua propensione a cantare gli affetti.