“Il cappello di paglia di Firenze” di Nino Rota inaugura la stagione lirica di Sassari

Sassari, Teatro Comunale – Stagione lirica 2019
IL CAPPELLO DI PAGLIA DI FIRENZE”
Farsa musicale in quattro atti di Ernesta Rinaldi e Nino Rota.
Musica di Nino Rota
Fadinard MAURO SECCI
Nonancourt FRANCESCO LEONE
Beaupertuis MARCO BUSSI
Lo zio Vézinet GIANLUCA MORO
Emilio WILLIAM HERNANDEZ
Felice MARCO PUGGIONI
Achille di Rosalba/Una guardia BRUNO LAZZARETTI
Un caporale delle guardie FABRIZIO MANGATIA
Minardi MANUEL DAMMICO
Elena ELISABETTA SCANO
Anaide ILARIA VANACORE
La baronessa di Champigny ALOISA AISEMBERG
La modista VERONICA ABOZZI
Orchestra e Coro dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Direttore Federico Santi
Maestro del coro Antonio Costa
Regia Lorenzo Maria Mucci
Scene Emanuele Sinisi
Costumi Massimo Poli
Light designer Tony Grandi
Allestimento della Fondazione Teatro di Pisa
Sassari, 27 settembre 2019
È stata sicuramente originale l’idea di inaugurare la Stagione Lirica 2019 a Sassari con Il cappello di paglia di Firenze in prima esecuzione regionale: la farsa musicale di Nino Rota, pur non essendo la migliore delle sue opere, non manca di spunti d’interesse e la sua proposta proprio nella serata più mondana del cartellone suona stimolante ancora oggi, pur in un’epoca di ricollocazione sociale. Infatti il carattere fondamentale del vaudeville ispiratore di Eugène Labiche, pur depurato nel libretto dei suoi aspetti più caustici e pruriginosi, tutto sommato trasmette anche nell’opera musicale divertimento puro per un pubblico borghese capace di ridere sui propri tanti vizi nascosti dietro le ostentate pubbliche virtù. L’autore, con la collaborazione della madre per il testo, crea un vorticoso gioco di rimandi storici, letterali e, ovviamente, musicali nei quali però alla fine finisce per rimanere un po’ invischiato, costruendo un meccanismo sicuramente piacevole ma inevitabilmente poco personale. Anche il libretto con le frequenti rime baciate alla “signor Bonaventura” e il frenetico citazionismo musicale, cosa da maneggiare con estrema cura, finiscono per rimanere fini a loro stessi, con un’evocazione da “buon tempo antico” dove si scorgono echi verdiani, buffonerie operettistiche, concertati rossiniani e accordi pucciniani, tutto abbondantemente fuori tempo massimo. Rota si diverte e diverte nel maneggiare con una certa abilità dei materiali dai quali però non riesce a prendere le distanze necessarie per un’elaborazione artistica veramente originale e così il tutto rimane nell’ambito del “carino”, senza mai riuscire veramente a decollare. Sicuramente è comunque gustoso (per i pochi che amano veramente il repertorio) sentire il tormentone “tutto a monte!” che fa il verso a Monterone dal Rigoletto oppure il tema dell’ouverture, utilizzato anche per il coro delle modiste, preso alla lettera da un vocalizzo ben noto per chi abbia studi di canto alle spalle. Purtroppo nell’obiettiva difficoltà dell’opera rimane invischiato anche lo spettacolo: il regista Lorenzo Maria Mucci cade anche lui nella terra di mezzo e, invece di limitarsi a dipanare una matassa di per se sovrabbondante, aggiunge la solita suggestione meta teatrale, con l’inevitabile rimando al cinema, René Clair, le comiche ecc. ma limitandosi solo a qualche elemento scenografico all’inizio e alla fine dello spettacolo, senza quindi sfruttare realmente uno spunto che, per quanto non particolarmente originale, avrebbe dato coerenza e sostanza all’allestimento. Non è stato aiutato in ciò dalle scene francamente poverelle di Emanuele Sinisi che, pur nell’essenzialità di un teatro di posa agli albori del cinema, avrebbe potuto creare qualcosa di meglio di una tenda a fare da sipario per i cambi scena o almeno costruire dei luoghi deputati più efficaci. Aggiustano il tiro la professionalità dei costumi d’epoca di Massimo Poli e le luci di Tony Grandi, ma il risultato d’insieme è stato poco soddisfacente e privo della necessaria logica unificante. Anche perché è mancata sostanzialmente la precisione del meccanismo registico, fondamentale in particolare nel ritmo frenetico richiesto dalla narrazione. Si vogliono citare le comiche? I meccanismi allora devono essere realizzati in maniera impeccabile: gli interpreti invece sembravano spesso improvvisare ricorrendo più alle proprie esperienze e doti personali che a precise indicazioni registiche e l’impaccio, specie nelle scene di massa, è stato evidente.Anche dal punto di vista musicale una maggiore vivacità non avrebbe disturbato: Federico Santi dirige orchestra e palcoscenico con buona mano e discreta precisione ma troppi dettagli, che avrebbero reso più fluida e serrata l’espressione, apparivano poco rifiniti, specialmente sul piano delle dinamiche e delle agogiche. Anche per la particolare struttura dell’opera erano troppo poco visibili gli stacchi tra i diversi quadri espressivi; è evidente che i vari momenti (patetico, brillante, comico, drammatico ecc.) proprio per l’aspetto parodistico e caricaturale di tante scene, avrebbero richiesto un carattere ben più accentuato di una semplice lettura corretta.Comunque il risultato complessivo è stato godibile anche grazie alla buona prestazione dei complessi strumentali e corali dell’Ente Concerti de Carolis che, pur coi limiti di cui sopra, hanno dato prova di buona preparazione ed efficacia. In particolare la matura vocalità del coro è stata addirittura sovrabbondante nei confronti di una compagnia di cantanti nel complesso piuttosto giovane, con vocalità anche interessanti, ma ancora acerba in alcuni elementi e con evidenti difficoltà a “passare” l’orchestra. È il caso del protagonista assoluto, Fadinard, unico nell’opera veramente importante per l’originale distribuzione degli altri ruoli che, di fatto, si alternano senza costruire mai le classiche gerarchie del melodramma tradizionale; Mauro Secci è un giovane tenore di bella e fresca vocalità, simpaticamente spigliato scenicamente, ma francamente troppo esile vocalmente e limitato nelle dinamiche (almeno negli spazi del Teatro Comunale) per reggere sulle sue spalle un personaggio praticamente onnipresente. Va sicuramente a sua lode l’aver condotto correttamente e senza cedimenti la recita dall’inizio alla fine, ma purtroppo è stata evidente la necessità di una vocalità più matura e importante. Sicuramente matura (e un gradino sopra tutti e tutte) è stata invece l’Elena di Elisabetta Scano, un po’ sacrificata in un ruolo non proprio adatto a lei, ma comunque capace di sprazzi di classe che valevano il prezzo del biglietto: la vocalità limpida, la perfetta intonazione, il controllo del registro acuto sono ancora da manuale e un esempio per i giovani (in buona parte suoi alunni) che l’hanno affiancata in questa produzione. Interessanti i basso/baritoni Francesco Leone e Marco Bussi, nei ruoli di Nonancourt e Beaupertuis: dotati di una vocalità bella e discretamente ampia, hanno ben vivacizzato dei personaggi farseschi fondamentali per il meccanismo scenico. Nonostante la giovane età, Leone ha mostrato alcuni problemi di tenuta dei suoni nel registro acuto, forse nell’appoggio sul diaframma: speriamo si sia trattato solo di un fatto occasionale. Efficaci anche Ilaria Vanacore, nel ruolo fatale di Anaide, e Aloisa Aisemberg (la baronessa di Champigny), piacevoli e disinvolte, che hanno saputo valorizzare dei ruoli impegnativi anche sul lato scenico. Adatte ai personaggi caricaturali dello zio sordo Vézinet e del “baritono tonante” Emilio le vocalità di Gianluca Moro e soprattutto di William Hernandez, mentre francamente è apparso fuori ruolo Bruno Lazzaretti nel doppio ruolo di Achille di Rosalba e di Una Guardia. L’affollato cast era completato con professionalità e spigliatezza da Marco Puggioni, nel ruolo di Felice, Veronica Abozzi e Fabrizio Mangatia, Modista e Caporale delle guardie. Orfani di una delle quattro o cinque opere delle quali orecchiano un paio di arie, probabilmente poco attratti da un cast senza divi, forse meno capaci di ridere di loro stessi in una garbata satira sociale d’altri tempi, molti abbonati hanno disertato l’apertura della stagione. Hanno sbagliato: la curiosità non è la parente nobile della ficcanaseria, ma quel motore che fa la differenza tra una tradizione viva e una museografia polverosa, tra un pubblico culturalmente vivace e uno passivo, tra chi guarda al presente e chi è ancorato a un passato di cui Nino Rota, già più di settanta anni fa (in un ennesimo gioco di rimandi) celebrava ironicamente dei fasti anche allora, ahimè, da tempo scomparsi.