Festival Aperto di Reggio Emilia 2019, Teatro Ludovico Ariosto
Peeping Tom
“KIND”
Ideazione e regia Gabriela Carrizo, Franck Chartier
Creazione e performance Eurudike De Beul, Marie Gyselbrecht, Hun-Mok Jung, Brandon Lagaert, Yi-chun Liu, Maria Carolina Vieira
Assistente artistica Lulu Tikovsky
Composizione musicale Raphaëlle Latini, Hjorvar Rognvaldsson, Renaud Crols, Annalena Fröhlich, Fhun Gao
sound mixing Yannick Willockx
Light design Amber Vandenhoeck, Sinan Poffyn
Costumi Lulu Tikovsky, Yi-chun Liu, Nina Lopez Le Galliard
Set design Justine Bougerol
Prima Italiana
Reggio Emilia, 28 settembre 2019
La verve creativa dei Peeping Tom non è maturata a più alti livelli artistici, come auspicato alla visione del più riuscito Moeder (Madre) del 2016, ma ha perso la consapevolezza dell’unicità ed è degenerata, è il caso di dirlo per questo spettacolo, nell’ostinata volontà di porre l’attenzione più sull’aspetto narratologico che su quello coreografico-espressivo. Con ciò intendiamo dire che sono ormai scomparse le contorsioni dei corpi, una loro costante interpretativa (pensiamo alla bravissima Marie Gyselbrecht, volto e corpo feticcio dei PT), a beneficio di certi effetti speciali che sostengono una storia più ricca di elementi simbolici. Ci illudevamo, come pretendono i fan nei confronti del loro idolo, di poter avere la certezza di godere di qualcosa di riconoscibile e certo, e ci riferiamo alle loro coreografie di personaggi dai tic epilettici che oggi rivediamo nei post su Instagram di Sandro Giordano (@_remmidemmi): corpi (“bodies with no regret”) sfracellati a terra in situazioni impossibili che, come dice lo stesso artista, sono “short stories about a world that is falling down”. Quindi, sebbene Kind (figlio) faccia pensare all’incubo di Cappuccetto rosso, dove il cacciatore è il malvagio che si è mangiato il lupo con tutta la sua cattiveria, non è uno spettacolo adatto ai bambini e non mette in scena il loro sguardo sul mondo, ma, al contrario, è la messa in scena disincantata, perciò iperreale, del mondo che l’adulto ha creato attorno a loro. Viene rappresentato un luogo, ai margini di un bosco d’alta montagna, in cui l’Uomo è in lotta con la Natura per la supremazia (richiamo ambientalista), un posto in cui il primo continua a non avere cura della seconda, e questa non fa che essere più matrigna (Leopardi) che mai, sbizzarrendosi, nel finale, addirittura in una progenie di esseri bizzarri alle prese con una pioggia di macigni sotto un cielo da giorno del giudizio universale. Un vero peccato, avere così tanta protervia narrativa, mentre piaceva non poco quel loro insistere sul movimento di braccia e gambe dei figuranti, e si esce da teatro un po’ scontenti, per non dire sconcertati, dalla messa in scena di qualcosa che va ben al di là di quello che avrebbe dovuto essere uno sguardo, sebbene particolare, sull’infanzia (tema dello spettacolo). Forse Kind, ultimo capitolo di una trilogia, segna un nuovo corso artistico per la compagnia belga (il cui nome nella cultura inglese significa voyeur, o magari “indagatore dell’incubo”, come Dylan Dog), potremmo definirlo noi dopo aver visto qualcosa che si avvicina molto al Grand Guignol, cioè a quel teatro del macabro nato nella Parigi di fine Ottocento. Stavolta però il Grand Guignol abbraccia il simbolismo e l’esoterismo che erano invece banditi dal teatro dell’orrore: pensiamo al momento in cui Eurudike De Beul divora l’ “albero bambino” che richiama il “Saturno che divora i suoi figli” dipinto da Goya. Il raccapriccio del pubblico del teatro Ariosto di Reggio Emilia di fronte a tale scena è però mitigato dalle copiose risate di qualcuno dal fondo della platea, che vuole forse per istinto esorcizzare la propria ansia e tensione. Insomma, quello proposto dai Peeping Tom questa volta è un mondo surreale in cui udiamo il fragore della pioggia improvvisa, mentre invece piove solo dentro alla tenda di certi escursionisti accampati sotto alle montagne (“Taxi piovoso” di Salvador Dalì, 1938); ed è anche un mondo neorealista per la volontà di farsi espressione dei cambiamenti di umore e di sentimento degli esseri umani, colti nell’atto di soverchiare le decisioni altrui. Sarà, ma questo loro declamato lavoro di compagnia impegnata nel sociale, con teatro terapia nelle scuole e presso le associazioni di disabili, che avrebbe dovuto aiutarli nella ricerca, ossia nell’arrivare a dare espressione artistica a quella che pensiamo essere l’intimità di una persona, in realtà si ferma già negli intenti, quasi a voler diventare espressione ideologica. Pensiamo al cervo con due gambe sui tacchi a spillo a cui staccano la testa, che non è certo un richiamo al mito di Atteone e Diana, ma è lo stesso una metamorfosi di animale in rischio di estinzione dall’immaginario bambinesco di abitante solitario di luoghi fiabeschi. Altra critica che possiamo fare a Kind è l’aver sottostimato l’importanza del testo, considerata la narrazione, per cui, se altre volte si era giustamente ricorsi alla sovratitolazione tradotta dall’inglese, stavolta la sua assenza ha compromesso a nostro giudizio il senso della drammaticità di certi recitativi poco amplificati e meno scanditi che non hanno fatto ben comprendere i dialoghi. Comunque, anche per questa produzione in partnership franco-italo-spagnola, i soliti cinque minuti abbondanti di applausi finali i Peeping Tom li prendono sempre da parte dei loro affezionati spettatori, coscienti che dovranno attendere i canonici due anni per rivederli di nuovo, magari con il primo capitolo di una nuova trilogia.Foto di Oleg Degtiarov