“Don Carlo” inaugura la stagione del Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2019-2020
“DON CARLO”
Opera in cinque atti su libretto originale francese di François Joseph Méry e Camille Du Locle, basato sul dramma Dom Karlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller; versione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini
Musica Giuseppe Verdi
Versione di Modena, 29 dicembre 1886 (Edizioni Ricordi, Milano)
Filippo II DMITRY BELOSSELSKIY
Don Carlo MARCELO PUENTE
Rodrigo LUCA SALSI
Il Grande Inquisitore MIKA KARES
Un frate FERNANDO RADÓ
Elisabetta di Valois MARIA AGRESTA
La Principessa Eboli EKATERINA SEMENCHUK
Tebaldo NATALIA LABOURDETTE
Il Conte di Lerma / Un araldo reale MOISÉS MARÍN
Una voce dal cielo LEONOR BONILLA
Deputati fiamminghi MATEUSZ HOEDT, CRISTIAN DÍAZ, DAVID SÁNCHEZ, FRANCIS TÓJAR, DAVID LAGARES, LUIS LÓPEZ NAVARRO
Orquesta y Coro Titulares del Teatro Real
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia David McVicar
Scene Robert Jones
Costumi Brigitte Reiffenstuel
Luci Joachim Klein
Produzione Oper Frankfurt
Madrid, 24 settembre 2019
Se la dimensione fondamentale del teatro è lo spazio, la concatenazione di molteplici e disparati luoghi può indebolire la centralità dell’azione principale. Non si dà migliore sperimentazione pratica di questo problema (apparentemente) teorico del Don Carlo(s) di Verdi, che i teatri di tutto il mondo scelgono di riportare sulla scena secondo una delle sue quattro versioni. Ognuna di esse, immancabilmente, si trasforma poi in occasione di perplessità e critiche. Secondo una prospettiva storico-letteraria, alcuni studiosi ritengono che recuperare l’atto di Fontainebleau sia un errore, perché dà concretezza a un antefatto più misterioso e affascinante se lasciato implicito nei dialoghi delle scene successive (conformemente al modello drammatico schilleriano); la maggior parte degli amanti di Verdi, invece, preferisce che questo atto sia incluso, proprio per permettere il confronto drammatico tra un antefatto che prende avvio nella gioia e gradualmente precipita in tragedia, con una progressione tipica del melodramma italiano. Il Teatro Real di Madrid ha scelto di inaugurare la stagione 2019-2020 con l’ultima versione approvata da Verdi: quella italiana (Modena 1886) che recupera l’atto di Fontainebleau nella traduzione di Achille de Lauzières. Quattordici recite, tre compagnie vocali, addirittura quattro tenori ad alternarsi nella parte dell’infante di Spagna, e la ripresa di una produzione dell’Opera di Frankfurt 2015, con un parterre di cantanti di grande levatura, che ha determinato unanime apprezzamento da parte del pubblico. La direzione del Teatro Real è, in effetti, abilissima: alternando in ogni stagione titoli del repertorio a nuove commissioni o preziosi recuperi, riesce sempre a qualificare l’eccellenza o di un direttore d’orchestra, o di un gruppo di cantanti, o di un regista (spesso, anche di tutte e tre le componenti fondamentali del teatro musicale). Direttore principale ospite, Nicola Luisotti concerta un altro titolo verdiano per il Real (dopo Rigoletto nel 2015 e Aida nel 2018), con l’usuale accuratezza, forza e veemenza, facendo emergere soprattutto l’opprimente potenza della partitura (anche a costo di velare qualche momento vocale). L’Orquesta del Teatro Real risponde molto bene alle sue richieste: ottimi i corni nell’atto di Fontainebleau, al pari dei violoncelli nella scena del chiostro. Il tenore ispano-argentino Marcelo Puente è un eccellente Don Carlo, per il fraseggio chiarissimo e la cristallina proiezione della voce, dal timbro non bello ma gentile e all’occorrenza eroico (in Italia fu Paolo nella Francesca da Rimini della Scala nel 2018). Un vibrato corto di fondo caratterizza la sua emissione, soprattutto prima che la voce si riscaldi e acquisti più omogeneità, ma senza mai disturbare; se gli acuti non sono esenti da qualche forzatura, nei pianissimi il cantante offre il meglio della sua interpretazione (stupendo il verso «Ah, il ciel s’illuminò, la selva rifiorì!», del già doloroso duetto con Elisabetta nel II atto). Il baritono Luca Salsi trasforma la parte di Rodrigo in un tripudio di vocalità verdiana: generosa, espressiva, anche enfatica (grazie all’uso del portamento), sempre molto personale ma persuasiva e – quel che più importa – basata sull’emissione saldissima di una voce impressionante. Dmitri Belosselskiy è uno dei migliori interpreti attuali di Filippo II, e ancora una volta dimostra come tutta l’espressività del torvo e sofferente monarca si possa comprendere nella linea di canto e nella tecnica, entrambe controllatissime. A un livello inferiore si colloca l’altro basso, il finlandese Mika Kares come Grande Inquisitore. Molto buoni Fernando Radó (Un frate) e Moisés Marín (nel duplice ruolo del Conte di Lerma e dell’Araldo reale). Il gruppo femminile della compagnia vocale non è così omogeneo come quello maschile: sempre splendida la Elisabetta di Maria Agresta, specialmente nei momenti di disperazione, e nel memorabile «Tu, che le vanità» del V atto, anche se forse la scrittura vocale risulta un po’ troppo drammatica per la sua personalità. Ekaterina Semenchuk è un’artista di lunga carriera e di molteplici successi; il pubblico di Madrid le tributa grandi applausi, sebbene alterni momenti di piena riuscita (come «O don fatale») ad altri in cui, volendo essere una Eboli originale, è invece meno convincente (come nella Canzone del velo, di cui esegue la cadenza a mezza voce, con stile ora manierato ora troppo aggressivo). Corrette Natalia Labourdette e Leonor Bonilla, rispettivamente nei ruoli di Tebaldo e della Voce dal cielo. Un encomio merita il Coro del Teatro Real, preparato da Andrés Máspero, per la precisione e l’intensità con cui ha disimpegnato ogni scena. Della parte visiva dello spettacolo risaltano i raffinati costumi di Brigitte Reiffenstuel, di sobria coerenza e impeccabile eleganza. Per il resto, oltre alla gestualità volutamente informale dei personaggi, attira l’attenzione la scena unica di David McVicar, allestita da Robert Jones. Tutto sembra consonante a una considerazione musicologica di Helga Lühning sui molti luoghi del libretto, che sarebbero «in prevalenza soltanto citazioni storiche. Dal punto di vista drammatico, ma anche, e soprattutto, da quello musicale viene rappresentata invece la Spagna delle mura claustrali, dell’inquisizione, dell’assolutismo di Filippo II e della severa etichetta di corte» (Don Karlos di Schiller secondo Verdi e Du Locle, in Verdi e le letterature europee, a c. di G. Pestelli, Accademia delle Scienze, Torino 2016, p. 170). In effetti, McVicar colloca il suo Don Carlo su di una rampa di scale contornata da due file di massicci pilastri e una parete di fondo rimovibile; i mattoni grigiastri dell’elevato suggeriscono un ambiente oppressivo, che soltanto grazie all’emergere di panchine o altari si trasforma nel Chiostro di San Giusto o nei giardini di Madrid. L’unitarietà visiva non è l’unico espediente per presentare l’opera nel modo più fluido possibile, perché scene e atti si incatenano gli uni agli altri senza pause, con una rapidità tale da trasformare il Don Carlo in un mulinello di situazioni disparate: l’effetto teatrale è molto moderno, ma è come se alla musica si sottraesse il tempo di corrispondenza e fissazione nella memoria degli ascoltatori (venticinque minuti di intervallo su quattro ore totali è davvero poco; neppure Wagner avrebbe preteso tanto …). A meno che direttore e regista non abbiano voluto porgere la narrazione del Don Carlo come quel “sogno strano” che il protagonista vorrebbe simulare con l’intrigante Principessa. Forse proprio per predomina un realismo esasperato, come nei peggiori incubi. Il finale dell’opera, celebre per il ricorso al soprannaturale, si tramuta in qualcosa di decisamente più tragico e cruento: le guardie del re trafiggono Don Carlo, che cade morto sull’avello di Carlo V; il padre gli si avvicina, con aria trucibalda, identificandosi nel Filippo di Vittorio Alfieri: «Ecco, piena vendetta orrida ottengo. / Ma, felice son io?».   Foto Javier del Real Teatro © Real di Madrid