Pesaro, Rossini Opera Festival 2019: “Semiramide”

Pesaro, Vitrifrigo Arena, Rossini Opera Festival 2019, XL Edizione
“SEMIRAMIDE”
Melodramma tragico in due atti di Gaetano Rossi

Musica Gioachino Rossini
Edizione critica Fondazione Rossini/Casa Ricordi a cura di Philip Gossett e Alberto Zedda
Semiramide, regina di Babilonia SALOME JICIA
Arsace, comandante l’armate VARDUHI ABRAHAMYAN
Assur, principe del sangue di Belo NAHUEL DI PIERRO
Idreno, re dell’Indo ANTONINO SIRAGUSA
Azema, principessa del sangue di Belo MARTINIANA ANTONIE
Oroe, capo dei Magi CARLO CIGNI
Mitrane, capitano delle guardie reali ALESSANDRO LUCIANO
L’ombra di Nino SERGEY ARTAMONOV
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia Graham Vick
Scene e costumi Stuart Nunn
Luci Giuseppe Di Iorio
Nuova produzione ROF e Opéra Royal de Wallonie-Liège
Pesaro, 17 agosto 2019
«Tremendo prodigio». Semiramide mancava a Pesaro dal 2003, quando per la prima volta fu eseguita al Rossini Opera Festival secondo l’edizione critica curata da Alberto Zedda e Philip Gossett. In occasione della 40a edizione del festival meritava, effettivamente, riprendere un titolo tanto emblematico sia nella produzione rossiniana sia nella storia del teatro musicale, con l’onore di una nuova produzione e una compagnia di cantanti specializzati in questo repertorio. Le esigenze fondamentali della messa in scena di Semiramide sono molteplici: un quartetto vocale di eccellenti interpreti, un direttore capace di dipanare organicamente le straordinarie e innumerevoli bellezze della partitura, un regista in grado di rappresentare il dramma concentrato nel libretto di Gaetano Rossi (molto più complesso di tanti precedenti, compreso Metastasio, e della stessa fonte voltairiana, la Sémiramis risalente al 1748). Se nel 1992 Zedda diresse una versione quasi integrale e nel 2003 Carlo Rizzi si cimentò con quella completa, tocca ora ripetere l’esperienza a Michele Mariotti: direttore giovane, ma già forte dell’esperienza di un ricco catalogo del Rossini serio (in particolare lo strepitoso Guillaume Tell del 2013). Come sempre, Mariotti porge il risultato di uno splendido lavoro insieme all’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, mettendo in luce arcate melodiche, sistemi di accenti e dinamiche, opposizioni di ritenendo e accelerando, per fare emergere in ogni pagina una monumentalità anche ostentata, ma sempre pertinente e raffinata. Dalle squisite cadenze ballettistiche che introducono i blocchi corali alle sezioni della nutrita banda sul palco, tutto è perfetto e cristallino, senza mai essere algido; al contrario, il direttore storna le perplessità sull’ingessato stile di restaurazione (che periodicamente si ripetono a proposito di questa partitura) con mille accorgimenti e scoperte nella sua trama, trafitture ritmiche e timbriche, alla ricerca continua della vitalità che si occulta dietro la pompa delle fanfare e dei cori celebrativi. Giovane il direttore, per lo più giovane la compagnia vocale, che si disimpegna bene, anche se con esiti differenti: buone le voci femminili, perfettibile il gruppo dei registri maschili; dal punto di vista musicale, comunque, è notevole successo di pubblico. Salome Jicia debutta come Semiramide, dopo aver cantato a Pesaro nel Torvaldo e Dorliska del 2017 e soprattutto nella Donna del lago del 2016; la voce è calda e vibrante, il porgere adeguatamente nobile, anche perché il soprano è molto attento al dosaggio dei fiati a scopo espressivo. Corretta nelle agilità e prudente negli abbellimenti, la Jicia rivela il carattere più peculiare della sua voce nei momenti di elegiaco ripiegamento e di pentimento, come la commovente invocazione «Già il perfido discese» che precede il terzetto finale. Varduhi Abrahamyan, nella parte en travesti di Ninia creduto Arsace, è un mezzosoprano armeno che esordisce sin dall’inizio con fraseggio sicuro, dizione accurata e registro abbastanza omogeneo; esegue bene le colorature della cavatina «Eccomi alfine in Babilonia», porgendo abbellimenti e piccole variazioni. Ogni tanto l’emissione apre un po’ troppo le vocali, e per essere marcatamente espressiva perde il controllo della linea di canto, ma quella sorta di novello Edipo/Oreste che è Arsace si ritaglia in tutta la sua spontanea crudezza e ingenuità. L’ambiguità del rapporto tra Semiramide e Arsace richiede una speciale complicità tra le voci, che la Jicia e la Abrahamyn sanno garantire grazie a un affiatamento già apprezzato nella Donna del lago pesarese del 2016; per questo, e per le notevoli dotti attoriali di entrambe, i duetti del I e del II atto sono i numeri meglio riusciti di tutta l’esecuzione. Il personaggio del tenore suscita sempre considerazioni opposte: generalmente il pubblico lo ritiene tanto superfluo sul piano narrativo quanto necessario su quello musicale, con due arie solistiche perfettamente strutturate. In realtà, l’Idreno di Rossini si può comprendere solo per mezzo del suo antecedente letterario (Scitalce, già amante di Semiramide sotto falso nome di Idreno, nel dramma di Metastasio): egli è l’unico a dispiegare sinceramente il suo amore per la principessa Azema sia in pubblico sia in privato, ed esige quindi tutte le prerogative dell’amoroso della tradizione settecentesca, più le agilità del tenore contraltino rossiniano. Antonino Siragusa è di casa al ROF e apprezzato dal pubblico internazionale per la bellezza del timbro, e riesce perfettamente credibile nel prediligere gli aspetti lirici e cantabili in «Ah, dov’è il cimento?» e «La speranza più soave»; dolcissimo negli attacchi in piano nel registro centrale, è un po’ meno convincente quando deve invece affrontare le spericolatezze di una coloratura che va al di là della sua personalità vocale. A lui, comunque, gli spettatori tributano uno degli apprezzamenti più marcati. Al belcanto tenorile di Idreno si oppone il ruolo antagonistico di Assur, il più impegnato dei tre bassi presenti nell’opera: Nahuel Di Pierro ha voce importante ma leggera rispetto alla parte; controlla abbastanza bene i fiati ed è tecnicamente corretto, anche se non impeccabile nelle colorature. Carlo Cigni, viceversa, è un Oroe convincente per timbro e piglio, adeguati al personaggio di gran sacerdote, anche se talvolta gli sfugge il perfetto controllo dell’intonazione. Sergey Artamonov, il terzo basso, dà voce – invero non troppo inquietante – all’ombra di Nino. Molto buoni la Azema di Martiniana Antonie e il Mitrane di Alessandro Luciano. Il Coro del Teatro Ventidio Basso, preparato da Giovanni Farina, per accrescere la partecipazione emotiva indulge all’inflessione semi-parlata, al sottovoce e all’esclamazione: scelte suggestive, che valorizzano la straordinaria duttilità dell’ensemble. Graham Vick è il responsabile di una regia vivamente contestata alla prima rappresentazione. Come quasi tutti i registi di oggi, egli si concentra sui problemi narrativi dell’opera, dunque sull’antefatto (il regicidio di Nino), amplificandone le ricadute di carattere psicologico sui membri della famiglia reale. Il regista ha pronunciato pubblicamente un giudizio alquanto severo sulla drammaturgia e sul libretto di Semiramide, riducendoli a una sequela di numeri musicali dalle inusitate dimensioni (ha parlato di “mostri”, senza nascondere un certo fastidio). Con tali presupposti, è consequenziale che il suo principale problema sia l’invenzione originale applicata a una partitura smisurata. La gigantografia degli occhi di Nino incombe dall’alto per tutto il tempo, mentre l’azione propriamente registica alterna gesti di naïveté, violenza e desiderio sessuale. Peccato che alla dimensione fondamentale di Semiramide – il mito, nelle sue innumerevoli declinazioni letterarie – Vick abbia sostituito i segni e le caricature dell’incubo, giocherellando in maniera stucchevole con segni e simboli (sciupando l’effetto di alcune trouvailles, come quella del lettino del piccolo Ninia, da cui nel finale II fuoriesce Semiramide in pigiama …). Ma non c’è regia che resista alla potenza stilizzata delle strutture rossiniane: l’insistente cadenza dei decasillabi del coro finale, «Vieni, Arsace, al trionfo, alla Reggia», riesce a cancellare repentinamente tutto l’orrore del compendio mitologico (l’esposizione dell’eroe redentore/distruttore, l’incesto edipico sfiorato, il matricidio alla Oreste), come in una rasserenante clausola di opera haendeliana; detto più efficacemente, lo fa con la sola forza della musica.   Foto ROF © Studio Amati Bacciardi