Martina Franca, 45a edizione del Festival della Valle d’Itria 2019
“ORFEO”
Dramma per musica in tre atti, libretto di Paolo Rolli
Musica di Nicola Porpora (con arie di Johann Adolf Hasse, Leonardo Vinci, Francesco Araja, Francesco Maria Veracini, Geminiano Giacomelli)
Edizione critica a cura di Giovanni Andrea Sechi
Orfeo RAFFAELE PE
Aristeo RODRIGO SOSA DAL POZZO
Plutone DAVIDE GIANGREGORIO
Euridice ANNA MARIA SARRA
Autonoe FEDERICA CARNEVALE
Proserpina GIUSEPPINA BRIDELLI
Orchestra Armonia Atenea
Direttore George Petrou
Maestro al cembalo Panagiotis Iliopoulos
Regia, scene, costumi e luci Massimo Gasparon
Martina Franca, 2 agosto 2019
Una sola recita è davvero poco per l’autentica perla della 45a edizione del Festival della Valle d’Itria. Sì, perché l’Orfeo, “pasticcio” musicale curato nel 1736 dal napoletano Nicola Porpora su libretto di Paolo Rolli per una compagnia di canto che schierava, tra gli altri, i due più celebri castrati del tempo, Carlo Broschi detto Farinelli (nel ruolo eponimo) e Francesco Bernardi detto il Senesino (Aristeo), nonché una diva di prima grandezza come Francesca Cuzzoni (Euridice), se non è un capolavoro, poco ci manca. Assemblando musiche proprie composte ex novo (diverse arie e i recitativi) e brani preesistenti di Hasse, Vinci, Araja, Veracini e Giacomelli, Porpora seppe non soltanto garantire un livello stilistico omogeneo ma anche, e soprattutto, dar vita a un congegno drammaturgico coerente e vivo. Rappresentato a Londra, al King’s Theatre in the Haymarket, il 2 marzo 1736, replicato almeno undici volte, Orfeo valse al suo autore uno dei maggiori successi in terra inglese. Riemerge dopo secoli di oblio grazie all’impegno critico di Giovanni Andrea Sechi e rivive, al Palazzo Ducale di Martina Franca, in un’esecuzione molto curata sul piano musicale e di indubbia suggestione visiva. Allievo e collaboratore di Pier Luigi Pizzi, Massimo Gasparon – qui titolare di regia, scene, costumi e luci – ha fatto propria la visione statica, elegante e distaccata del maestro, e pare non prendere troppo sul serio i casi di Orfeo, Euridice, Aristeo e Autonoe. La gestualità è volutamente leziosa e innaturale, rarissime le controscene durante le lunghe arie con da capo (ma irresistibile l’annoiato roteare degli occhi dell’Aristeo di Rodrigo Sosa Dal Pozzo durante i reiterati rimproveri di Autonoe). Tutto, dai costumi iperbarocchi alle aggraziate giravolte delle ampie gonne, dai movimenti sinuosi delle mani al modo in cui Orfeo si mette in posa prima di attaccare ogni aria, rispecchia l’idea del melodramma barocco – leggere le note del regista nel programma di sala – come genere che ha per fine precipuo «lo stupore, il diletto, la varietà e un appagamento finale sereno e senza complicazioni», e dove il desiderio erotico è motore drammaturgico e insieme pretesto per coinvolgere il pubblico in un gioco di ammiccamenti sessuali – uomini che prestano una voce femminea, acquisita mediante castrazione, a personaggi maschili innamorati di donne – molto simile a quello innescato dalle attuali forme di spettacolo fondate sulla sessualità transgender. Di qui la ricercata ambiguità degli abiti maschili (che combinano le filologiche culottes con un bizzarro gonnellino da donna), un trucco che guarda, pur senza esagerare, al mondo delle drag queen, e soprattutto una regia la cui staticità è spesso in contrasto con l’acceso dinamismo della musica. Il tutto, va detto, governato da Gasparon con l’amara ironia di chi ben conosce il fondo tragico di tale edonistica leggerezza. A partire proprio dai costumi sfarzosi e ingombranti – sono loro la vera scenografia – che appesantiscono visibilmente i movimenti dei cantanti accentuandone l’innaturalità e, con essa, denunciando il carattere di finzione della vicenda. Carattere quest’ultimo che il décor si incarica di sottolineare mediante i tre sipari, dagli eleganti drappeggi, manovrati a vista da appositi servi di scena in abito nero e maschera bianca. Insomma, «all the world’s a stage» pare dirci il regista con le parole di Shakespeare e con pessimistica consapevolezza dell’infinita vanità di ogni cosa. Su tutto, infatti, incombe il nero spettro della morte: neri i veli che fanno da sipari, nere le aperture del fondo, nere le porte da cui entrano ed escono i personaggi, neri i costumi dei mimi che compaiono a più riprese materializzando le pulsioni distruttive che si accompagnano al principio di piacere. Persino i movimenti, raggelati in una successione di tableaux, e dunque apparenti, tradiscono l’inerzia del non essere.Visione indubbiamente suggestiva, capace di gettare un’ombra di nichilismo persino sul lieto fine. Resta, che piaccia o no, lo scollamento con la parte musicale. Anche perché il greco George Petrou, alla testa dell’ottima compagine di strumenti antichi Armonia Atenea, alle passioni dei personaggi ci crede eccome, e anziché contemplarle con distacco preferisce viverle dal di dentro. Ne risulta una direzione contrastatissima, che rifonde la lunga infilata di arie e recitativi – complice un continuo particolarmente nutrito – in un unico arco espressivo reso continuamente pulsante dall’incessante mutare di colori e sfumature espressive, percorrendo con ammirevole elasticità e fantasia una gamma di sentimenti che va dall’amore più tenero e appassionato alla più nera perfidia. Lo asseconda un cast molto ben assortito. Timbro ambrato, estensione ragguardevole, tecnica e musicalità da vero fuoriclasse, accento dalle mille sfumature e presenza scenica magnetica, il controtenore Raffaele Pe sormonta senza sforzi l’impegnativa scrittura della parte, tanto nell’impervia coloratura quanto nelle ampie arcate dei momenti più elegiaci e malinconici, aderendo al personaggio – a dispetto della generale staticità richiesta dalla regia – con delicata, disarmante verità. Alla fine della recita gli applausi più lunghi sono per lui. Lo affianca l’Euridice incantevole di Anna Maria Sarra, voce luminosa e accento spigliato, a ritrarre una femminilità ben poco idealizzata, ma vivida nel suo continuo oscillare tra compiaciuta sensualità e tenerezza. E certo il temperamento non fa difetto neppure a Federica Carnevale, timbro corposo valorizzato da un’emissione tutta sul fiato, per una Autonoe appassionata e volitiva. Incisivo e nervoso, ma anche ironico e ambiguo, l’Aristeo plasmato dall’altro controtenore, il venezuelano Rodrigo Sosa dal Pozzo. Liete notizie anche dalla coppia infernale: Proserpina si giova della voce morbida e vellutata di una Giuseppina Bridelli capace di risolvere l’insidiosa scrittura delle sue due arie con impeccabile aplomb ed espressività a un tempo signorile e trepidante. Nel ruolo di Plutone, infine, Davide Giangregorio sfoggia una linea di canto solida ma anche duttile nel modellarsi su un accento di grande intelligenza. Completa la festa l’ottimo quartetto vocale degli allievi della locale Accademia di Belcanto “Rodolfo Celletti”. Foto Lapolla