Martina Franca, 45a edizione del Festival della Valle d’Itria 2019
“ECUBA”
Tragedia lirica in tre atti, Libretto di Giovanni Schmidt
Musica di Nicola Antonio Manfroce
Edizione critica a cura di Domenico Giannetta
(Edizioni del Conservatorio di Musica “Fausto Torrefranca”, 2017)
Achille NORMAN REINHARDT
Priamo MERT SÜNGÜ
Ecuba CARMELA REMIGIO
Polissena ROBERTA MANTEGNA
Teona MARTINA GRESIA
Antiloco LORENZO IZZO
Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del coro Corrado Casati
Regia, scene, costumi Pier Luigi Pizzi
Luci Massimo Gasparon
Martina Franca, 4 agosto 2019
Chi l’ha detto che il viola a teatro porta iella? Pier Luigi Pizzi non sembra pensarla così, almeno a giudicare dalla gran profusione di viola nei costumi di Ecuba, l’opera di Nicola Manfroce da lui allestita per il 45° Festival della Valle d’Itria. Certo, quando a pochi giorni dal debutto il direttore Fabio Luisi ha annunciato il ritiro per malattia e il soprano Carmela Remigio ha comunicato di dover rinunciare, causa un’indisposizione, alla prima delle due date, qualche scaramantico ha pensato che fosse colpa dei costumi. Sarà. Quel che importa è che nonostante ciò lo spettacolo possa dirsi complessivamente riuscito, come attesta il successo della prima (lo scorso 30 luglio) e di questa seconda recita. Superstizioni a parte, bisogna ammettere che in un’ideale classifica dei compositori più sfortunati l’autore di quest’opera occuperebbe i primi posti. Nicola Manfroce nacque a Palmi, in Calabria, nel 1791, anno della morte di Mozart, e morì a Napoli nel 1813, all’indomani della definitiva consacrazione di Rossini. Rappresentata al Teatro San Carlo il 13 dicembre 1812, Ecuba riscosse un successo così caloroso che la si dovette replicare ben quattordici volte. Pochi mesi dopo, però, non si sa bene per quale malattia, il compositore moriva appena ventiduenne. L’opera si inserisce all’interno della politica culturale dell’allora direttore dei Teatri Reali di Napoli, il famigerato Domenico Barbaja: ridestare nel sonnecchiante pubblico della città l’interesse per il melodramma e, allo stesso tempo, guadagnarsi il favore dei governati francesi. Una strategia che prevedeva da un lato l’allestimento di nuovi titoli dei maggiori esponenti della vita musicale napoletana, dall’altro l’importazione dalla Francia delle più fortunate tragédies lyriques in traduzione italiana. Ecuba rappresenta un ulteriore stadio della strategia di Barbaja: provare a fondere la due tradizioni affidando a un musicista di scuola napoletana la composizione di una nuova opera su libretto francese appositamente tradotto da Giovanni Schmidt, esperto nell’adattare alla lingua italiana le opere d’oltralpe. La scelta cadde su Hécube di Jean-Baptiste-Gabriel-Marie de Milcent, rappresentata a Parigi nel 1800 con la musica di Georges Granges de Fontenelle.Il risultato è un lavoro diseguale, che si apre con un accordo degno del Don Giovanni mozartiano (identica la tonalità d’inizio della Sinfonia, re minore), prosegue con un teatralissimo dialogo tra Polissena (innamorata di Achille, l’uccisore di suo fratello Ettore) e l’ancella Teona, inanella pagine più o meno ispirate e si chiude, alla maniera francese, con un lungo recitativo di Ecuba sul cadavere della figlia morta seguito da un concitato epilogo sinfonico. Certo, Manfroce non fu il primo a tentar di innestare nel tronco dell’opera italiana i caratteri della tragédie lyrique: ci aveva già provato Traetta, con risultati di gran lunga più convincenti. Qui, però, quello che più conta sono le improvvise, quasi romantiche accensioni dei recitativi, i loro audaci percorsi armonici, gli inattesi mutamenti di agogica e le raffinate pennellate degli strumenti, conta il respiro ampio e nervoso dei tanti interventi corali, spesso abilmente integrati nei momenti solistici (come nella prima aria di Ecuba o in quella di Polissena al terzo atto), conta infine la scaltrita organizzazione degli ensembles, con il vertice protorossiniano dell’ampio concertato che conclude il secondo atto. Pizzi, che come suo solito firma anche scene e costumi (le luci invece sono di Massimo Gasparon), colloca la tragica vicenda d’amore e di vendetta all’interno della stessa scatola scenica in cui abbiamo visto srotolarsi la girandola buffa del Matrimonio segreto, titolo che ha inaugurato il festival di quest’anno. Via gli arredi moderni, restano le nude pareti bianche; di nuovo c’è solo l’altare centrale, su cui è collocato il corpo di Ettore, e le gradinate ai due angoli laterali, dove trova posto il coro (gli uomini a sinistra, le donne a destra). Un candore lattiginoso riveste ogni elemento della scena, definendo uno spazio elegante, ma anche algido e asettico come l’interno di un laboratorio, un non-luogo classico e futuribile insieme, anzi fuori dal tempo. Gli stessi tratti antichizzanti dei costumi vanno in questa direzione, giacché per Pizzi il “classico” non è nostalgia del passato, ma veicolo dell’essenza puramente umana, per dirla con Wagner. Il gioco scenico si dipana all’insegna di una generale staticità: la storia – pare suggerirci il regista con impietoso distacco – è un racconto che si ripete identico a se stesso dalla notte dei tempi, nulla imparano gli uomini dall’esperienza, ogni loro scelta, ogni gesto, ogni parola reitera un copione immutabile, poiché immutabili sono le molle dell’agire umano: violenza, sopraffazione, amore/odio, vendetta. Aperta e chiusa con quattro uomini che portano in spalla un cadavere (Ettore prima, Achille poi), la messinscena di Pizzi cela dietro l’eleganza plastico-figurativa una riflessione sulla fissità della storia, e dunque sulla sua fine. Va detto però che senza un cast di cantanti-attori adeguati, e senza una concertazione in grado di infondere respiro unitario a una drammaturgia tanto eterogenea, difficilmente la riproposizione di quest’opera avrebbe potuto funzionare. La compagnia schierata per la presente produzione è di tutto rispetto. Certo, l’Achille di Norman Reinhardt non possiede una voce classicamente bella, ma poco importa a fronte di un canto sicuro e di accattivante espressività. Timbro chiaro ma corposo, innervato da accento di grande intelligenza, il giovane Mert Süngü ritrae un Priamo insolitamente volitivo e inquieto, mentre l’altrettanto giovane Roberta Mantegna dona a Polissena una voce ampia e ben proiettata, di linea salda e morbida, cui forse avrebbe giovato una maggiore partecipazione interpretativa. Quanto a Ecuba, se alla prima la ventitreenne Lidia Fridman, catapultata quasi senza preavviso dall’Accademia “Rodolfo Celletti” al palcoscenico del Palazzo Ducale, se l’è cavata più che egregiamente sfoggiando voce di bel colore e ammirevole aderenza fisica al personaggio, la seconda recita si è avvalsa della presenza di una Carmela Remigio in grande spolvero. Voce ampia, inconfondibile nel sua tinta umbratile, duttile in quanto saldamente appoggiata e benissimo emessa, musicalità a prova di bomba, fraseggio al calor bianco, presenza scenica carismatica: tutto, insomma, contribuisce a un’interpretazione incandescente, capace di rendere credibili i furori di un personaggio cui il libretto offre ben poche occasioni di confronto con interlocutori altrettanto caratterizzati. Completano degnamente il cast Martina Gresia (Teona) e Lorenzo Izzo (Antiloco), mentre il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, molto motivato sul versante scenico – specie il comparto femminile – scaglia bordate di suono forse un tantino esagerate. Molto bella, infine, la concertazione di Sesto Quatrini. Chiamato a sostituire all’ultimo momento l’indisposto Luisi alla testa dell’ottima compagine del Teatro Petruzzelli di Bari, il trentacinquenne direttore valorizza le tante finezze dello strumentale, imprime un passo teatrale che non conosce punti morti, sostiene il canto con un accompagnamento ovunque elastico, riuscendo a coniugare ampiezza di respiro, intenso lirismo e una corrusca, rovente tragicità senza che mai venga meno la morbida cantabilità della condotta orchestrale. Foto Clarissa Lapolla