Jacques Offenbach (1819 – 1880) 200: “Les contes d’Hoffmann” (1881)

A 200 anni dalla nascita.
Opéra fantastique in un prologo, tre atti e un epilogo su libretto di Jules Barbier. Vittorio Grigolo (Hoffmann), Thomas Hampson (Lindorf, Coppélius, Dappertutto, Miracle), Sofia Fomina (Olympia), Christine Rice (Giulietta), Sonya Yoncheva (Antonia), Kate Lindsey (Nicklausse/La Musa), Christophe Mortagne (Spalanzani), Eric Halfvarson (Crespel), Vincent Ordonneau (Andrès, Cochenille, Pittichinaccio, Frantz), Catherine Carby (La voce della madre di Antonia), David Junghoon Kim (Nathanael), Charles Rice (Hermann), Yuryi Yurchok (Schlemil), Jeremy White (Luther), Olga Sabadoch (Stella).
Orchestra of the Royal Opera House, Evelino Pidò (direttore), Royal Opera Chorus, William Spaulding (maestro del coro), John Schlesinger (regia), Daniel Dooner (responsabile della ripresa), William Dudley (costumi), Maria Björnsson (costumi).Registrazione: Londra, Royal Opera House of Covent Garden, 15 novembre 2016. T.Time: 2 ore e 49′ 1 Dvd/Blu-ray disc Sony Classical 88985376629

È l’addio a un pezzo di storia questa registrazione londinese del “Les contes d’Hoffmann”, l’ultima ripresa dopo ben trentasei anni dello spettacolo firmato da John  Schlesinger (con scene di William Dudley e costumi di Maria Björnson), una delle produzioni più fortunate della storia lirica mondiale degli ultimi decenni. Un addio necessario, ma non per questo meno doloroso. Necessario perché a pesare su questa produzione non sono gli anni trascorsi, ma gli enormi progressi filologici intorno a quest’opera. Lo spettacolo è ancora concepito secondo la “classica” versione di Choudens, molto parziale e lontana da quella che era l’idea originale dell’opera e purtroppo ben pochi spazi di manovra restavano per aggiornare lo spettacolo alle riscoperte e riorganizzazioni con cui gli studi di Oeser,  Gunsbourg e Kaye hanno trasformato il volto di quest’opera. Mancano quindi ancora tutta la scena iniziale che rendendo da subito chiara l’identificazione di Nicklausse con la Musa (che dona tutt’altra centralità al personaggio) l’aria solistica di Giulietta “L’amour lui dit: la belle” (rendendo, così, il personaggio privo di un momento solistico) e quasi tutti gli interventi di Stella, ridotta a poco più che una figurante. Di contro alle assenze, gli apocrifici come l’aria di Dappertutto che è ancora “Scintille, diamant” in luogo di “Tourne tourne miroir”, aria che diventa il nucleo fondante da cui parte l’intera regia dell’atto e che quindi non può essere sostituita. Daniel Dooner, che cura la ripresa, cerca di introdurre qualche correttivo – come l’apparire della Musa nel primo atto anche se solo sul piano scenico – ma non può trasformare un impianto che, da questo punto di vista, è ormai obsoleto. Un addio doloroso perché lo spettacolo resta di una bellezza abbagliante, uno di quei capolavori che è difficile, per non dire impossibile, superare. In tempi in cui ancora lontani erano i contemporanei artifici scenotecnici, Schlesinger realizza una regia di taglio prettamente cinematografico, in cui realismo e simbolismo si integrano alla perfezione. Le scene sono d’impatto sicuro e gli splendidi costumi capaci di trasmettere tutta la magia della stagione romantica. Altrettanto perfetta la recitazione – mirabilmente ripresa da Dooner – con quel senso del teatro che i maestri inglesi hanno come nessun’altro: non vi è un gesto, uno sguardo, un cenno che non sia perfettamente calibrato. Siano questi i grandi colpi di teatro, come il corpo distrutto e bruciato di Olympia, a metà fra un automa e uno scheletro che conferisce un sapore inquietante a una scena in cui troppo facilmente si cade nella comicità più banale, o gli effetti demoniaci che animano di oscure presenze la stanza di Antonia oppure i dettagli minuti come i singoli gesti degli avventori della locanda o lo sguardo di Hoffmann che si ferma come folgorato posandosi sul ritratto di Stella durante la ballata di Kleinzanch. Grandissimo spettacolo da godere con tutto il cuore, lasciando che per qualche ora la mente si riposi dai rovelli filologici. La parte musicale non raggiunge i vertici di quella visiva, ma si fa comunque apprezzare. Alla guida dei sempre validissimi complessi londinesi, Evelino Pidò fornisce una prova di solido mestiere, reggendo con mano sicura la non facile concertazione e mostra una particolare qualità nell’accompagnamento dei cantanti, anche se un po’ carenti sul piano della personalità interpretativa. Vittorio Grigolo, nel ruolo del protagonista, è a tratti spiazzante, difficile da valutare nel suo approccio convintamente istrionico. Sul piano scenico è strepitoso, entra ubriaco cadendo sulle scale, si regge in piedi a fatica, ma lo sguardo è quello di un genio ispirato, due gesti e scenicamente Hoffmann è inquadrato alla perfezione.  Il resto segue di conseguenza, con una capacità di identificarsi con il personaggio tale da far perdonare anche qualche eccesso. Vocalmente la prestazione è bifronte. Il materiale di base è ragguardevolissimo, la voce splendida per timbro e colore, di una luminosa calorosità degna della miglior scuola italiana; di contro l’emissione è spesso incontrollata, il temperamento tende a prevalere sul corretto controllo tecnico e se le mezze voci sono da antologia, gli acuti sono sempre presi più per arcana virtù che per magistero tecnico. Il fraseggio è simile alla recitazione. Convintissimo, ma spesso troppo sopra le righe. Una prestazione appunto difficile da valutare obbiettivamente perché Grigolo riesce a far arrivare in modo convincente la natura del personaggio, agevolato al riguardo dai tratti anarcoidi che il ruolo ha già di suo. Gli anni migliori sono decisamente alle spalle di Thomas Hampson e per di più i quattro ruoli diabolici dell’opera sono pensati per un basso o basso-baritono e non per un baritono puro come è sempre stato Hampson. La voce ha mantenuto una buona solidità nel settore centrale, ma gli acuti sono faticosi e i gravi semplicemente mancano della pienezza richiesta. È però un fraseggiatore raffinato e nell’opera francese ha sempre trovato il proprio terreno d’elezione: l’accento è sempre ricco di nuances ed di sfumature e si unisce a non comuni doti di attore. Le quattro figure sono perfettamente distinte e di ciascuna è colta magnificamente la caratteristica essenziale, dal più bonario Coppélius – ed è strano che Offenbach trasformi in una figura quasi buffa questo personaggio, forse il più autenticamente inquietante uscito dalla penna di Hoffmann – alla mortifera presenza del Dottor Miracle, in cui Hampson completa la geniale intuizione registica di farlo apparire ovunque siano ombra e oscurità, implacabile simbolo della inarrestabilità della morte. Semplicemente perfetta Kate Lindsey: voce non grande, ma perfettamente controllata, accento raffinatissimo e recitazione sobria e controllata con cui tratteggia un personaggio di gestualità essenziale e distinta, perfetto contraltare e completamento dell’irruento Hoffmann di Grigolo. Nel quartetto delle amate, tolta la Stella di Olga Sabadoch ridotta a poco più di una presenza dall’edizione adottata, la più deludente è l’Olympia di Sofia Fomina, classico soprano leggero che canta con buona sicurezza l’impervia parte, ma che risulta fin troppo “meccanica” nella grande aria e soffre di una certa asprezza negli acuti. Meglio Christine Rice (Giulietta), mezzosoprano dalla cavata ampia e sonora e dal timbro sensuale: l’assenza dell’impegnativa aria la esenta inoltre da eccessivi sforzi in acuto. Sonya Yoncheva è un’Antonia di intenso e accorato lirismo, timbro morbido, caldo, molto femminile, accento sempre curato, ottima presenza scenica e musicalità raffinata. Purtroppo il settore acuto è sempre avventuroso e la parte la sollecita significativamente al riguardo. Nell’insieme positiva la prova delle parti di fianco, fra cui spicca il raffinato fraseggio di Vincent Ordonneau nelle parti dei quattro servi. Non convince invece il Crespel imponente, ma sgraziato di Eric Halfvarson.