Genova, Arena del Mare – Ti porto all’Opera 2019
“LA TRAVIATA”
Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valery ANGELA NISI
Flora Bervoix MARTA LEUNG
Annina LAURA ESPOSITO
Alfredo Germont GIULIO PELLIGRA
Giorgio Germont STEFANO ANTONUCCI
Gastone JUDE WON
Barone Douphol CLAUDIO OTTINO
Marchese d’Obigny FEDERICO BENETTI
Dottor Grenvil JOHN PAUL HUCKLE
Giuseppe GIULIANO PETOUCHOFF
Domestico di Flora LORIS PURPURA
Commissionario MATTEO ARMANINO
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Jacopo Rivani
Maestro del Coro Francesco Aliberti
Regia, scene e costumi Lorenzo Giossi
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 28 luglio 2019
Iniziamo questa recensione con una provocazione, che vuole però anche essere una sincera domanda aperta: ma di cosa muore Violetta Valéry? Il quesito sorge alla luce delle “Traviate” di questa estate, quella di Como e quella di Genova, diversissime tra loro, ma entrambe assolutamente refrattarie a tisi, attacchi tubercolotici e affini. Si potrebbe obiettare che non sia importante, tutto sommato, che si capisca di cosa muore questa benedetta fanciulla, ma respingo con forza questo punto di vista per due ragioni: la prima è che questo è il punto di vista di chi sa la storia, sa di che si tratta, magari ha pure visto già l’opera – e considerato quanto l’opera oggi sia diffusa e spiegata, noi oggi non possiamo solo intenderla per chi la conosce già; la seconda ragione è che la tosse di Violetta non è solo una didascalia del libretto, ma anche una presenza in partitura, sottolineata da scariche di archi, nel primo e nel terzo atto. Rieccoci, allora, davanti a un caso di quella drammaturgia musicale che già tanto e in tanti abbiamo spiegato e auspichiamo che si rispetti. Cosa ce ne facciamo di quegli archi, li ignoriamo? Nemmeno troppo implicitamente, gettiamo questa palla ai giovani registi (Giossi e Bernard) che queste Traviate hanno concepito, chiedendo delucidazioni. L’allestimento di Lorenzo Giossi, per il resto, propone momenti ben congeniati (tutto il primo quadro del secondo atto), trovate già viste (l’ambientazione anni Trenta o l’ennesima Violetta/Marlene/Marilyn, sulla scia di Fussman), altre poco riuscite (dalla scenata isterica di Flora all’inizio del secondo quadro del secondo atto, all’ingiustificata violenza di Alfredo nei confronti di Annina, al tentativo di rendere comica la scena dei toreri). Non del tutto convincente anche le scelte dei soggetti delle videoproiezioni: a volte più intimiste, altre più pop, senza un’apparente logica. Tuttavia il risultato, per quanto a tentoni, si porta a casa: lo spettacolo è godibile, non troppo eccentrico ma nemmeno trito e ritrito, le scene essenziali e ben allestite, il rapporto tra attore e oggetto scenico sempre curato – cosa per nulla scontata, al giorno d’oggi, anche in piazze più altisonanti dell’arena genovese. È evidente che la forza di questa produzione risieda nelle doti, sceniche e vocali, della protagonista, un’Angela Nisi in stato di grazia: il soprano brindisino, infatti, fornisce una pregevolissima prestazione vocale, supportata da tecnica sicura, che le conferisce pari disinvoltura nel settore centrale come in quello acuto, agilità ben sgranate, picchiettati ammirevoli, sovracuti sicuri; anche il fraseggio viene gestito attentamente, sfumando in pianissimi e messe di voci tanto quanto calcando i momenti più drammatici del terzo atto (accorato in particolar modo l’“Addio del passato”); unica ombra su questa splendida interpretazione è forse un colore vocale che risente dei trascorsi “leggeri” (nonchè la giovane età). Ci penseranno il tempo e l’esperienza a irrobustire il timbro. Dal punto di vista teatrale Violetta si spende totalmente in scena, regalando un’interpretazione credibile anche quando potrebbe esserlo meno (castigata in un tailleur pantalone nel secondo atto, o a scena praticamente vuota nel terzo), senza mai eccedere nel macchiettistico, pur ricercando sempre la massima espressività. Anche il veterano Stefano Antonucci regala una performance scenica di livello, molto attento a non caricare troppo un personaggio, quello di Giorgio Germont, talvolta fin troppo stilizzato. Rincresce constatare come Antonucci oggi mostri una certa stanchezza vocale che si evidenzia con una linea di canto non sempre controllata e con una certa povertà di colori, in parte compensati da una solida professionalità teatrale. Giulio Pelligra (Alfredo) sembra non avere un pieno controllo del registro acuto, certi suoni sembrano schiacciati. Nonostante ciò Pelligra è cantante musicale, con una presenza scenica adeguata ad un’interpretazione credibile. Un po’ appannata è parsa Marta Leung (Flora), mentre Laura Esposito ha sfoderato un’Annina di ottima presenza vocale; valido l’apporto degli altri ruoli. Spiccano Federico Benetti (il Marchese d’Obigny) e Claudio Ottino (il Barone Duphol) per prontezza scenica e cura del fraseggio. Davvero ottima la direzione del maestro Jacopo Rivani, attentissima a calibrare i suoni dell’orchestra, capace di condurre con facilità i cantanti e in perenne ricerca della giusta intenzione espressiva. Un po’ sottotono, invece, la prova del Coro: senz’altro energica e festosa nel primo atto, nel secondo sembra meno convinta, forse spaesata dalla regia – che in effetti non lo valorizza a dovere. Il pubblico, comunque, sia al termine della recita che a scena aperta, ricambia tutti con calorosi applausi, che, per la potagonista, si fanno giustamente scroscianti. Al critico resta solo una manciata di perplessità e dubbi, tra cui quello che ha aperto questo pezzo: ma di cosa è morta, Violetta Valéry? Non ha versato una goccia di sangue, eppure ha sofferto moltissimo nel terzo atto. Forse, nel XXI secolo, non possiamo più farla morire di tisi – chi può dire, poi, di sapere esattamente cosa fosse, questa famosa “tisi”? Ma ci rifiutiamo di accogliere la lectio telenovelarum, per la quale Violetta “muore per amore”. “D’amore si muore” è un luogo comune che già Patroni Griffi, nella sua omonima commedia del 1958, aveva smascherato, non facciamo finta di crederci ancora. Ridare vita a Violetta Valéry significa anche prendersi la responsabilità di ucciderla di nuovo: non è giusto nascondere al pubblico la propria mano assassina.