Laufenberg si ispira al Dalai Lama, per l’idea utopica di annullare il fondamentalismo religioso arrivando alla totale spoliazione dai dogmi religiosi.
Bayreuther Festspiele 2019
“PARSIFAL”
Dramma in tre atti, musica e libretto di Richard Wagner Amfortas RYAN MCKINNY
Titurel WILHELM SCHINGHAMMER
Gurnemanz GÜNTHER GROISSBÖCK
Parsifal ANDREAS SCHAGER
Klingsor DEREK WELTON
Kundry ELENA PANKRATOVA
Orchestra e Coro del Bayreuther Festspiele
Direttore Semyon Bychkov
Maestro del Coro Eberhard Friedrich
Regia Uwe Eric Laufenberg
Scene Gisbert Jäkert
Costumi Jessica Karge
Luci Reinhard Traub
Video Gérard Naziri
Drammaturgia Richard Lorber
Bayreuth 15, agosto 2019
…”Una persona, che ha creato qualcosa come il “Parsifal” non può vivere ancora lungo, ha finito, ha dato tutto”… più o meno questo dichiarava August Förster, sovrintendente dell’Opera di Lipsia, all’indomani della prima rappresentazione del Parsifal a Bayreuth diretto da Hermann Levi il 26 luglio 1882. E fu profetico, perché Wagner di lì a sette mesi morì a Venezia. Quella attesissima prémière del Parsifal a Bayreuth sancí un patto, costituì una inheritance, per volontà dello stesso Wagner: l’ultimo titolo del suo catalogo sarebbe stato eseguito da quel momento in poi esclusivamente sul palcoscenico del sacro colle. Tuttavia, il suggello di esclusività, il patto mistico svanì a cominciare dal 1 gennaio 1914, quando il Parsifal cominciò, seppur timidamente, ad essere rappresentato in tutto il resto d’Europa.Il Parsifal a tutt’oggi rimane un mistero di fede e devozione, un polittico liturgico dove passione e resurrezione, materialità e trascendenza sono ribadite da una medesima mano che avvince e guida dalla prima all’ultima nota quanti partecipino al rito stesso dell’esecuzione, non ultimi gli ascoltatori/spettatori che ne sono i diaconi. Non sembra un’opera (nessuno applaude per espressa volontà del compositore) è più una messa cantata. La sacralità del rito, che è cornice essenziale, fondante alla celebrazione del culto è sancita dal silenzio e dall’attesa. La musica di Wagner buca le apparenze e nel contempo le celebra attraverso un immaginario incandescente che impregna lo spazio scenico (e non solo) e ne domina ogni sua parte. L’interpretazione del regista Uwe Eric Laufenberg è pervasa sin dal primo atto da un senso di agnosticismo, scetticismo critico rispetto alle religioni rivelate, un senso di spaesamento provocatorio con cui risponde alle devozioni monoteistiche: sembra egli dubitare della pratica religiosa in sé. Alla fine dell’ultimo atto musulmani, ebrei e cristiani depongono i simboli della propria fede nella bara, in una Grab che resta vuota, in attesa di un corpo assente. Quello della Chiesa. A sottolineare la totale liberazione o spoliazione dai dogmi religiosi Laufenberg ricorre al nudo in scena. Corpi di uomini e donne che danzando sotto la cascata d’acqua esibendo un sesso pre-storico, non ancora macchiato dalla “originalità” del peccato. Il regista si richiama ad un mondo spirituale a-teologico o post-teologico; “Penso in alcuni giorni che sarebbe meglio se non avessimo più religioni”. È questo il messaggio -del Dalai Lama- stampato sul programma di sala come un claim ricorrente, che il regista coglie alla lettera, decontestualizzandolo. Parlare di un superamento collettivo del senso religioso della vita è una sfida, una provocazione al “ripensare” il messaggio salvifico profondo del Parsifal. È tutto già compiuto. Assistiamo a un dopo evento, la cacciata (o l’abbandono) si è già realizzato. La Chiesa in rovina, il Medio Oriente martoriato, i cavalieri del Graal che sono rifugiati (profughi, migranti, disperati) che giacciono su letto da campo. Un Parsifal combattente, con tanto di mimetica e munizioni, che si aggira nel castello di Klingsor (che in realtà è un harem ) per rivendicare (o definire) il suo stato di pellegrino eroico. È la nuova crociata contro l’infedele. Ninja dalla croce lucente, non più scudo crociato. Oriente/Occidente: ancora una volta lontani dalla olimpica sintesi goethiana, un Iraq un poco oleografico sul cui paesaggio si muovono i personaggi miniaturizzati. Come nella salita al Golgota di Brügel il vecchio Cristo non si vede. Va cercato nella moltitudine. È un fuoco sommerso. Come nel 2016 se non si può pienamente parlare di “successo” in termini teatrali, si può parlare di risultato in termini di riscontri. È una regia che continua a non suggerire risposte ma piuttosto a porre domande. L’essenzialità post-bellica della scenografia di Gisbert Jäkel, tanto criticata, agevola, per così dire, la concentrazione e l’ascolto sui singoli attori che si muovono (poco) in uno spazio dove anche i concetti cartesiani di volume, lunghezze e altezze sembrano superati. Semyon Bychkov, al suo secondo anno a Bayreuth, regala una lettura che, in accordo al palcoscenico, punta sulla estrema trasparenza, che acceca come un sole nel deserto. La melodia diventa oasi felice che ristora. Bychkov è analitico e minuziosissimo. Castelli di sabbia che non crollano, ma si trasformano in cristallo. La sua interpretazione è accolta col più convinto entusiasmo e già si parla di nuovi titoli per il direttore russo. L’ austriaco Andreas Schager nel title -role si conferma uno dei migliori tenori eroici del panorama wagneriano; già nel primo atto quando Parsifal uccide il cigno santo, impone all’attenzione un uso sapiente della vocalità. In accordo perfetto con la buca, ha proseguito con intensità il “suo” crescendo emozionale. Forse il suo “Amfortas-Ruf” è risultato un poco troppo stentoreo, ma rimane un dettaglio a fronte di una lettura della parte che ci è sembrata nel complesso superiore a quella di Klaus Florian Vogt, di tre anni fa. Elena Pankratova è un soprano di grande esperienza internazionale dotata di qualità vocali esorbitanti. Perfetta per il ruolo ispido di Kundry. Miracolo di tecnica vocale nella gestione dei registri; uguaglianza, uniformità e volume. Forse una maggiore attenzione alla pronuncia avrebbe reso la sua performance quale un possibile riferimento di oggi. Amfortas, l’americano Ryan McKinny, forte di una fisicità hollywoodiana, ha dato vita ad un Cristo dolente -agnello di Dio- con tanto di corona di spine e sangue di Passione, convincendo sin dalle prima battute per l’accento con cui ha gestito il canto e la forza di una voce eroica piena e ricca di squillo. Il basso Günther Groissböck ha proposto un Gurnemanz nerissimo, senza luce, da cui ha sbalzato lavorando di ombra e rifrazione Un interpretazione ammirevole. Intensità vocale, fraseggio, pronuncia eccellente gli hanno assicurato – anche in termini di “applausometro” – il primo posto sul podio. Bene anche il bass-baritono australiano Derek Welton, come Klingsor, forse un poco troppo preoccupato del testo, in favore di un abbandono emotivo comunque necessario nella magnifica celebrazione dell’ ennesimo mistero wagneriano. Foto Enrico Nawrath