97° Arena di Verona Opera Festival 2019: Plácido Domingo 50 – Arena Anniversary Night

97° Arena di Verona, Opera Festival 2019
Plácido Domingo 50 – Arena Anniversary Night”
“NABUCCO”

Musica di  Giuseppe Verdi
Sinfonia – “Va’ pensiero…Oh, chi piange…Del futuro nel buio discerno” – Atto quarto

Nabucco PLÁCIDO DOMINGO
Zaccaria MARKO MIMIKA
Fenena GÉRALDINE CHAUVET
Ismaele ARTURO CHAÓN-CRUZ
Anna ELISABETTA ZIZZO
Abigaille ANNA PIROZZI
Il Gran Sacerdote di Belo  ROMANO DAL ZOVO
Abdallo CARLO BOSI
“MACBETH”
Musica di  Giuseppe Verdi
Atto Quarto
Macbeth PLÁCIDO DOMINGO

Lady Macbeth ANNA PIROZZI
Macduff  ARTURO CHAÓN-CRUZ
Malcom CARLO BOSI
Medico ROMANO DAL ZOVO
Dama  LORRIE GARCIA
“SIMON BOCCANEGRA”
Musica di  Giuseppe Verdi
“O inferno!…Amelia qui!…Sento avvampar nell’anima” – Tu qui?…Parla, in tuo cor virgineo” – Figlia?…Vecchio inerme il tuo braccio colpisce?-  “M’ardon le tempia… – “Chi veggo!…Gran Dio, li benedici”

Simon Boccanegra PLÁCIDO DOMINGO
Amelia ANNA PIROZZI
Fiesco MARKO MIMICA
Gabriele Adorno  ARTURO CHAÓN-CRUZ
Orchestra, coro, ballo dell’Arena di Verona
Direttore Jordi Bernàcer
Maestro del coro Vito Lombardi
Regia Stefano Trespidi
Scene e projection design Ezio Antonelli
Coordinamento costumi Silvia Bonetti
Luci Paolo Mazzon
Coreografia Giuseppe Picone
Verona, 4 agosto 2019
La settimana di festeggiamenti per i cinquant’anni dal debutto di Placido Domingo a Verona e in Italia (era il 1969 quando stupì l’Arena nei panni di Calaf), ha visto passare questa star planetaria dai panni di direttore in Aida a quelli Giorgio Germont in Traviata, fino a questa serata, durante la quale ha concluso da baritono con una spettacolare tripletta, dinanzi ad un’Arena letteralmente commossa: Nabucco, Macbeth e Simon Boccanegra. Il programma a trittico condensava i momenti forse più emozionanti di quelle opere. L’ottima esecuzione della sinfonia del Nabucco, diretta con gesto nobile da Jordi Bernàcer, ha aperto le danze, letteralmente. Ci è garbata molto la geometrica coreografia creata sulle note orchestrali da Giuseppe Picone, e danzata con pregevole grazia dal corpo di ballo dell’Arena. Subito il pubblico si è mostrato generoso di applausi, per l’arrivo del successivo Va’ pensiero, che è stato immediatamente bissato col coro sparpagliato tra gli spettatori (bisogna dirlo, senza chissà quale grande differenza di risultato acustico). Generoso per non dire smanioso: in nessuno dei due casi gli spettatori hanno avuto la delicatezza di attendere lo spegnersi di quella “virtù”, troncando il magico filato corale con applausi scroscianti, da far perdere la pazienza a chi ha provato inutilmente ad anticiparli con uno “scccc!!!”. Immediata l’ovazione all’ingresso di Domingo, che all’età di 78 anni calca ancora il palco con energia leonina, in osservanza perfetta del motto “if I rest, I rust”. Quanto si scriveva di lui dopo la memorabile recita della Turandot di quel lontano 16 luglio 1969, ove si esibì accanto ad una altrettanto debuttante Birgit Nillson, può essere ancora citato per parlare delle qualità vocali che contraddistinsero sin dagli esordi questo mito della lirica: la sua voce oggi come allora è “limpidamente bella ed autentica”, e – cosa non scontata – si è dimostrata essere anche incredibilmente longeva, tale da resistere quasi immutata a migliaia di recite. Ma ciò che fa grande questo cantante, oltre ad uno strumento inconfondibile, capace di emozionare generazioni di melomani, è la sua pieghevolezza allo stile e alle esigenze della parola. La versatilità con cui è passato dalla paterna fierezza di Nabucco, alla crudeltà disperata di Macbeth e infine alla decadente nostalgia di Simon Boccanegra, è un dono che di certo il Cielo non fa che a pochi interpreti e a distanza di decadi. E questo miracolo di aplomb avviene come niente fosse, con una naturalezza da attore consumato, come quella della sua caduta “a pera” alla fine del Simone (che più che cadere, pareva svanire alla vita). E’ ovvio: ad un artista di quell’età e di quella statura si perdona tutto: un poco di affaticamento dove il tempo della partitura incalza e che gli dona il pathos di chi è a debito di fiato. Lo diciamo, ma solo per dovere di cronaca, o forse per il bambinesco gusto di voler trovare un neo perfino a Dio. Perché di certo Placido, quando è sul palcoscenico è un dio, e sa di esserlo. Una chicca: Domingo ha perfino tirato fuori dal dimenticatoio l’aria “Mal per me che m’affidai”, che ci risulti per la prima volta nella sua carriera da baritono, pezzo che Verdi tagliò via dal finale di Macbeth nel 1865, a favore di una drammaturgia più stringente. Come perfino la luna abbisogna del suo corteo di stelle ad incantar la notte, così Domingo si è visto scortato per l’occasione da un cast di prima scelta. Partiamo dall’artista che ci aveva già conquistato in Aida e che, in quanto a presenza scenica, bellezza degli acuti, facilità di emissione ed eleganza di recitazione ha poco da invidiare all’altra superstar di questa estate areniana, Anna Netrebko. Anna Pirozzi, i capelli tinti di un rosso malpelo per la crudele Abigaille, ci ha rapiti con la sua voce adagiata sul fiato come un vascello in mare e con un fraseggio ampio, ma così ampio che pareva tutti i 15000 spettatori dell’arena potessero farci casa. Ipnotica con la sua lanternina e smarrita negli incubi omicidi, la scena del sonnambulismo di Lady Macbeth è stata eseguita dalla Pirozzi con un’accuratezza interpretativa rara, per concludersi con un re bemolle che non era affatto cantato “con un fil di voce” come la partitura richiederebbe, ma che ci ha letteralmente trafitti come i sensi di colpa la regina shakespeariana. Dalla vocalità spontanea, giovane e fresca, oltre che dotata di acuti belli e squillanti, il tenore messicano Arturo Chacón-Cruz, nel 2005 vincitore di quello stesso concorso creato da Domingo, Operalia, e che ha appena debuttato in Arena quale Duca di Mantova. In un’intervista ha rivelato come, cominciando la sua carriera da baritono, fu proprio Domingo ad accorgersi che la sua voce era un’altra e a finanziarlo nei successivi studi di “correzione”. Altrettanto bella, brunita e flessuosa, la voce di Marko Mimica, giovanissimo basso croato, che ha messo in scena un potente Zaccaria (seppur forse troppo giovanile, timbricamente parlando) e un Fiesco molto convincente. All’altezza dell’eccezionale circostanza le voci salde e dotate di personalità degli altri artisti: Geraldine Chauvet, Elisabetta Zizzo, Lorrie Garcia, l’inconfondibile Romano Dal Zovo e Carlo Bosi, roccia areniana. Complessivamente buona la performance del coro, preparato fedelmente da un applauditissimo Vito Lombardi. Quanto alla regia, Stefano Trespidi se l’è cavata molto bene, con un progetto ordinato e semplice. Forse, per un atto solo, avremmo preferito un assetto tradizionale per il Macbeth. Le scene di Ezio Antonelli sono state anche semplici e funzionali, ma di certo nessuno si sarebbe lamentato se fossero rimaste uguali all’interno degli atti, senza interrompere l’azione per quei micromovimenti che hanno cambiato di poco il mondo sulla scena. Le proiezioni invece sono state di qualità e resa troppo alterne. Dai bellissimi cieli, quasi veri, del finale di Simon Boccanegra, a certe catene sinceramente brutte proietatte durante il Va’ pensiero (ben inteso il loro senso, ma davvero ineleganti rispetto a musica che può dirsi sacra). Più che appropriate le luci di Paolo Mazzon. Le candeline di un personaggio come Domingo sono proporzionate alla sua carriera, per questo alla fine dello spettacolo sopra le gradinate dell’Arena abbiamo visto risplendere nel fuoco le lettere del suo nome assieme al numero cinquanta: tanti e più sono gli anni di musica, emozioni e di vita spesa generosamente per la diffusione dell’opera nel mondo. E come alle origini, l’arena ha fatto il suo tributo al suo gladiatore. Foto Ennevi per Fondazione Arena