A 260 anni dalla morte del compositore
Opera seria in tre atti su libretto di Vincenzo Grimani. Patricia Bardon (Agrippina), Jake Arditi (Nerone), Danielle de Niese (Poppea), Filippo Mineccia (Ottone), Mika Kares (Claudio), Damien Pass (Pallante), Tom Verney (Narciso), Christoph Seidl (Lesbo). Balthasar Neumann Ensemble, Thomas Hengelbrock (direttore), Robert Carsen (regia), Gideon Davey (scene e costumi), Robert Carsen e Peter van Praet (luci), Ian Galloway (video designer).Registrazione: Vienna, Theater and der Wien, 16-29 marzo 2016. T.Time: 178′ 1 DVD Naxos NBD0078V – 2018
“Agrippina” di Händel è una di quelle opere che non ci si capacita siano ancor così poco presenti sui palcoscenici perché non solo è una miniera di musica splendida ma è soprattutto un capolavoro teatrale capace di far interagire le forme e i generi con assoluta naturalezza, di far convivere dramma e commedia senza fratture o nette separazioni ma sempre fuse in un unico flusso come nella vita. La storia degli anni drammatici che segnarono la fine del regno di Claudio e l’inizio di quello di Nerone è trattata con notevole libertà nel libretto di Vincenzo Grimani, ma, se i fatti sono spesso narrati, pienamente colto è lo spirito di quella lotta di potere senza quartiere dove tutto poteva divenire strumento per favorire o stroncare carriere e speranze. Discendente di due delle massime famiglie italiane – Gonzaga dal ramo materno, Grimani – una delle più antiche gentes patrizie veneziane – da quello paterno – il Cardinale conosceva bene il potere e le sue dinamiche. Tutto questo non solo sembra attualissimo ma lo è perché eterne sono le ambizioni narrate, eterni i poteri corruttivi del sesso e del denaro, eterna la crudeltà che si cela dietro ogni potere. Robert Carsen parte da questa idea ma purtroppo tende ad appiattirla fin troppo. Dove più stimolante sarebbe il gioco degli accenni e delle suggestioni lanciate al pubblico si sceglie di rendere tutto più diretto, più chiaro, forse più scontato come se il pubblico non fosse in grado di comprendere l’eternità di certe tematiche se non trasposte in una banale quotidianità televisiva. Eccoci quindi in un’ipotetica Italia contemporanea, ossessionata dai media e dalla smania di apparire; le stanze del potere sono quelle del Palazzo delle Esposizioni all’EUR, il cosiddetto Colosseo quadrato con i suoi richiami al fascismo apparentemente imprescindibili per molti registi di formazione nordica e anglosassone ogni volta in cui protagonista è la storia di Roma (elementi che ritroveremo nella scena dell’annuncio della vittoria sulla Britannia da parte di un Claudio-Mussolini totalmente avulso dal resto della regia). Il tutto è colorato, vivace, pacchiano; l’ambiguità scompare, il sesso è esibito senza ritegno così come il denaro. Il tutto ricorda molto una soap opera televisiva che può avere una certa capacità di coinvolgimento ma che inevitabilmente tende a restare in superficie e questa è anche l’impressione che si ha dello spettacolo nonostante la magistrale capacità di lavoro sugli attori che Carsen dimostra sempre di avere. A parere dello scrivente questo spettacolo conferma la presenza di due anime nel regista canadese, tanto intenso e profondo quando lavora per via di levare fino all’essenzialità metafisica – come in alcuni spettacoli janacekiani – quanto quasi travolto da se stesso quando agendo per via di mettere sembra lasciarsi sfuggire l’essenza per l’apparenza. Non convince l’idea di cambiare il finale dove il posticcio lieto fine händeliano – che con la sua evidente falsità lascia aperte tutte le lacerazioni – con una cupa scena di massacro generalizzato ordinata da un Nerone ormai fuori di sé, che omaggia la leggenda nera dell’imperatore folle, risulta stridente con la musica e fin troppo risolutiva sul piano teatrale. La parte orchestrale è affidata a Thomas Hengelbrock alla guida del Balthasar Neumann Ensemble. Quella fornita è una direzione pienamente in linea con la prassi esecutiva attuale di queste opere. Thomas Hengelbrock opta per un’agogica molto marcata, con tempi rapidi e nervosi e sonorità orchestrali chiare e terse; la sua lettura musicalmente è molto precisa. Sul piano espressivo tende invece a restare un po’ in superficie, a non cogliere sempre tutte le sfumature, tutti i trapassi di genere, tutte le ambiguità della partitura händeliana. Il cast risente di precise scelte di natura registica come quella di affidare a controtenori tutte le parti pensate per castrato, con risultati altalenanti. Il migliore sicuramente Filippo Mineccia, voce non grande ma molto musicale e ottima linea di canto; sul piano espressivo coglie bene il carattere elegiaco e sentimentale di Ottone e la sua voce si fonde ottimamente con quella della De Niese nel sublime duetto “No, no, ch’io non apprezzo”. Convince meno il Nerone di Jake Arditi che è strepitoso sul piano scenico nel rappresentare un principe infantile, contorto e di un sadismo quasi incosciente mentre sul piano vocale si assiste a una prova professionale e corretta ma senza quella qualità superiore che brani come “Come nube” sembrerebbero richiedere. Poco da dire sul quasi evanescente Narciso di Tom Verney. Mika Kares ha una voce sicuramente imponente per volume, di bel timbro e di notevole sicurezza di emissione ma al contempo appare evidente che si trovi abbastanza fuori repertorio. Si muove con pesantezza e poca grazia nella scrittura händeliana lasciando l’impressione del proverbiale elefante nel negozio di cristalli. Nell’insieme si apprezza più nei momenti comici e grotteschi come la teatralissima scena a quattro che apre il III atto – di quanta ironia e di quanta maestria negli equilibri fra personaggi era capace Händel! – che in quelli più seri e virtuosistici dove le pur non vertiginose colorature lo vedono abbastanza fuori parte. Scenicamente risulta fin troppo sano e giovanile per la parte di Claudio, ultrasessantenne all’epoca dei fatti oltre che affetto dai ben noti handicap fisici. Completano la parte maschile del cast il Pallante di Damien Pass, scenicamente perfetto in coppia con Verney e vocalmente più presente di questi e Christoph Seidl la cui parte di Lesbo quasi totalmente costituita da soli recitativi rende difficile una valutazione. “Agrippina” è però soprattutto il confronto fra le due prime donne in cui risulta vincitrice la Poppea di Danielle de Niese. Certo, rispetto ad altre prestazioni in cui la ricordavamo appare appesantita fisicamente e vocalmente ma una certa femminilità materna non è inadatta al ruolo. Restano intatte la qualità della musicista, l’intelligenza e la varietà dell’accento, l’innegabile seduzione timbrica, la non comune personalità scenica. La sua Poppea così femminile e ironica, piccante e civettuola ma anche capace di autentica emozione è sicuramente il personaggio più riuscito della registrazione. Nel ruolo della protagonista Patricia Bardon è attrice strepitosa, perfettamente calata nelle dinamiche dello spettacolo, una perfetta business lady senza scrupoli anche se forse – specie per una sensibilità italiana – fin troppo Maryl Streep de “Il diavolo veste Prada” piuttosto che madre italica morbosamente legata al figlio. Ottima fraseggiatrice dispone di un interessante materiale vocale e di un’ottima tecnica di base, la parte è però particolarmente acuta virando spesso verso tessiture quasi sopranili fin troppo acute per i suoi mezzi vocali così da costringerla inevitabilmente a forzare in più punti.