Antonio Vivaldi: “Se lento ancora il fulmine” (Argippo), “Sol da te, mio dolce amore”, “Ah fuggi rapido” (Orlando furioso), “Vedrò con mio diletto” (Il Giustino), “Quell’augellin che canta” (La Silvia), “Leggi almeno tiranna infedele”(Ottone in villa), “Solo quella guancia” (La verità in cimento), “Sovente il sole” (Andromeda liberata), “Combatta un gentil cor” (Tito Manlio), “Se mai senti spirarti sul volto” (Catone in Utica). Cecilia Bartoli (mezzosoprano), Ensemble Matheus, Jean-Christophe Spinosi (direttore), Registrazione: Bad Kissingen, Max-Littmann Saal, 2018. T.Time: 58.27. 1 Cd Decca 483 4475
Cecilia la Diva, perché, a prescindere dai giudizi personali, Cecilia Bartoli è forse l’unica vera diva del nostro tempo, l’unica cantante ad avere quell’arcana scintilla che separa pochissimi eletti anche dal novero della massa dei musicisti comuni, compresi molti di grandissime qualità ma privi di quella scintilla demonica che solo pochissimi possiedono. Cecilia la musicista colta e raffinata, Cecilia l’esploratrice di repertori sconosciuti, la rabdomantica scopritrice di tesori dimenticati sotto le onde del tempo. Cecilia, questo e mille altre cose, la cantante più dibattuta, amata e odiata dei nostri tempi ma sempre capace di stupire, di far riflettere, di mettere in discussione le certezze anche quando – in “Norma” e ancor più in “La Sonnambula” – si è spinta fuori dal proprio alveo sfidando estetiche e prassi esecutive stabilizzate forse senza trovare la chiave definitiva ma costringendo comunque a guardare con occhio diverso anche questo repertorio più abituale. Un duplice anniversario è sotteso alla scelta di questo CD, il trentennale della collaborazione con la Decca e il ventennale dal primo CD vivaldiano, passaggio fondamentale per la piena affermazione anche mediatica della produzione operistica del Prete rosso. La Bartoli torna quindi a Vivaldi e vi torna con un materiale che nulla ha perso in brillantezza – la tecnica mostruosa della Bartoli e l’intelligenza dell’artista hanno fatto si che i lunghi anni trascorsi non abbiamo praticamente lasciato ruga sul materiale vocale – mentre lo scavo interpretativo si è ulteriormente arricchito. La Bartoli sa – come forse nessun’altra – cantare gli affetti e in questo è maestra nel cogliere tutto il gioco di sfumature, di inflessioni, di dettagli espressivi che di questa musica sono tratti essenziali quanto il gusto trionfante del far musica, la gioia del virtuosismo che accende i numerosi passaggi di coloratura in cui la Bartoli è stata mille volte imitata ma in cui resta inarrivabile per chiunque. Poi ci si può chiedere quanto ortodossa sia la tecnica della Bartoli, quanto il suo modo di cantare sia stilisticamente appropriato ma sono riflessioni della mente che non intaccano le emozioni del cuore che la cantante romana è in grado di trasmettere. Qualità espressive che colpiscono soprattutto nei grandi brani lenti dove più che il virtuosismo – comunque mai assente – sono le qualità di fraseggio e accento a emergere. È il caso della struggente “Se mai senti spirarti sul volto” da “Catone in Utica”, aria di austera commozione in cui il canto di coloratura – presente non meno che in arie brillanti o vivaci – è piegato a esigenze espressive intime e dolenti che la Bartoli realizza in modo magistrale con la sua capacità di dare senso a ogni nota, a ogni pausa, in un fraseggio dove mai nulla è lasciato a se stesso. In altri brani la malinconia cede a un elegante gioco seduttivo; sono i casi della celeberrima “Sol da te, mio dolce amore” da “Orlando furioso”, di cui la Bartoli fornisce una lettura esemplare per cura del dettaglio e senso della melodia, o della meno nota, ma non meno suggestiva, “Solo quella guancia” da “La verità in cimento”. Non meno entusiasmante il coté delle arie brillanti che permettono alla Bartoli di scatenare le sue funamboliche doti nel canto di bravura. La Bartoli apre il programma con i fuochi d’artificio di “Se lento ancora il fulmine” da “Agrippo” dove con la più assoluta naturalezza si getta in trascinanti cascate di note, in variazioni precisissime e realizzate a velocità vertiginosa. Anche nel campo delle arie di bravura non c’è ripetitività ma ogni aria ha una propria personalità che va dall’eroismo di “Ah fuggi rapido” da “Orlando furioso” al quel gioiello di tenue grazia che è “Quell’augellin che canta” da “La Silvia” con la voce chiamata a riprodurre il canto degli uccelli in un luminoso scenario primaverile. Ad accompagnare la Bartoli è Jean-Christophe Spinosi con il suo Ensemble Mateus, ottimo conoscitore del repertorio operistico vivaldiano – fu tra i protagonisti dell’integrale Naïve – che accompagna con energia ed entusiasmo la prova della cantante. Assolutamente da non perdere.
Antonio Caldara: “Fortuna e Speranza” (Nitocri), “Tanto. E con si gran piena” (Gianguir. Imperatore del Mogol), Tomaso Albinoni: “Aure. Andate e Baciate” (Il nascimento dell’Aurora), Domenico Gabrielli: “Aure voi. De’ miei sospiri” (San Sigismondo, re di Borgogna), Antonio Vivaldi: “Di verde ulivo” (Tito Manlio), George Frideric Handel:” What passion cannot Music raise and quell” (Ode for Saint Cecilia’s day Hwv76), “Son qual stanco pellegrino” (Arianna in Creta), Nicola Porpora: “Giusto Amor, tu che m’accendi” (Gli orti Esperidi), Luigi Boccherini: Concerto per violoncello nr.10 in re maggiore G.483. Cecilia Bartoli (mezzosoprano), Sol Gabetta (violoncello), Cappella Gabetta, Andrés Gabetta (violino & direzione). Registrazione: Zurigo, Evangelisch-reformierte Kirchgemeinde, marzo 2017. T.Time:76.48. 1 CD Decca 483 2473
Nel mare piatto e spesso sconsolante dei recital lirici Cecilia Bartoli rappresenta una delle poche, sicure eccezioni. I programmi proposti dal mezzosoprano romano hanno sempre un’originalità e una logica strutturale difficile da trovare altrove. Non fa eccezione questo “Dolce duello” che merita decisamente un attento ascolto nonostante la copertina fin troppo stucchevole con i suoi richiami alle riviste patinate del dopoguerra. Il programma prosegue l’esplorazione del repertorio barocco portata avanti dalla Bartoli concentrandosi sulla forma espressiva più caratterizzante quell’estetica: l’aria con strumento obbligato. Questo tipo di arie rappresenta il punto più compiuto dell’estetica barocca, quello in cui emerge con maggior chiarezza uno dei suoi assiomi fondamentali: la gara d’imitazione e contrasti fra voce e strumento solista che esalta i temi della mimesi e della meraviglia così centrali nel gusto del tempo. Ma la Bartoli non poteva limitarsi a una banale scelta di arie con strumento obbligato; la selezione è più stretta e più rigorosa e si concentra su un tipo particolare di queste arie, quelle con violoncello obbligato. Il violoncello era all’epoca strumento di ancora recente introduzione e il viaggio proposto dalla Bartoli – dalla Bologna di fine Seicento che del violoncello è il principale terreno di coltura – alla Londra händeliana attraverso Vienna e Venezia è anche un viaggio sulla creazione e sull’evoluzione di un’estetica del violoncello dai primi esperimenti ancora influenzata dagli strumenti a corda pizzicata di tradizione manierista al raggiungimento di una specifica maturità espressiva. Ad accompagnare la Bartoli in questo viaggio è Sol Gabetta, ancor giovane e talentuosa violoncellista argentina, il cui gusto interpretativo caratterizzato da una calda e intensa cantabilità si presta benissimo a fondersi con il canto della Bartoli. Il viaggio comincia – non come ordine di ascolto ma come cronologia di brano – da “Aure voi, de miei sospiri” tratta dal “San Sigismondo, re di Borgogna” composta da Domenico Gabrielli nel 1687. È un brano tipico della prima stagione violoncellistica in cui la ricerca di un linguaggio è ancora agli albori come attesta l’uso di arpeggiature ancora legate alla prassi esecutiva di liuti e chitarroni. I brani viennesi e veneziani segnano invece il raggiungimento di questa autonomia espressiva. La Bartoli li affronta da par sua e, se il modo di cantare resta molto personale e suscita sempre profonde divisioni fra sostenitori e oppositori, la tecnica è mostruosa; le colorature di “Aure, andate e baciate” da “Il nascimento dell’Aurora” di Albinoni sono, infatti, di una pirotecnica brillantezza, dando l’impressione di un’argentina cascata di note. La Bartoli è, inoltre, altrettanto sensibile come interprete e mostra una rara capacità di cantare sulla parola in questo repertorio e di cogliere sempre la giusta temperatura espressiva dei singoli brani da quella più scopertamente patetica alla leggerezza galante del “ Gianguir, Imperatore del Mogol” di Caldara – una delle autentiche rivelazioni di questo cd – alla capacità di fondere alla perfezione virtuosismo ed espressione che trionfa in “Giusto amor, tu che m’accendi” da “Gli ori esperidi” di Porpora. Come si noterà dai brani citati quelli proposti sono di ascolto decisamente raro – tre in prima esecuzione moderna – rendendo ancor più stimolante l’ascolto. Anche in un brano relativamente noto come “Di verde ulivo” dal “Tito Manlio” di Vivaldi la Bartoli e la Gabetta offrono l’esecuzione forse più compiuta ascoltata fin ora. Concludono la parte vocale due brani composti da Händel negli anni 30 del Settecento che segnano in qualche modo il punto di arrivo della stagione sperimentale del violoncello e la sua definitiva affermazione internazionale; composti infatti per Londra testimoniano la qualità ormai raggiunta dagli esecutori anche lontano dall’Italia. L’aria da “Arianna in Creta” è uno dei grandi andanti händeliani in cui la Bartoli può far valere tutte le sue qualità nel canto espressivo. Chiude il programma il Concerto n.10 in Re Maggiore G 483 composto da Boccherini nel 1783 che segna in qualche modo la fine della stagione barocca e l’apertura verso i nuovi lidi del classicismo e del prossimo romanticismo. Qui la Gabetta, divenuta protagonista assoluta, può far valere tutta la cantabilità quasi umana del suo stile esecutivo. Ad accompagnare l’insieme la Cappella Gabetta con direttore e primo violino Andres Gabetta, fratello di Sol che offre una prestazione pienamente apprezzabile sotto tutti i punti di vista non sfigurando di fronte a più affermate compagini.