Venezia, Teatro Malibran, Lirica e balletto, Stagione 2018-2019
“DORILLA IN TEMPE”
Melodramma eroico-pastorale in tre atti RV 709, Libretto di Antonio Maria Lucchini.
Musica di Antonio Vivaldi
Dorilla, figlia di Admeto e amante d’Elmiro MANUELA CUSTER
Elmiro, pastore di Tempe LUCIA CIRILLO
Nomio, pastore, poi riconosciuto per Apollo VÉRONIQUE VALDÈS
Filindo, pastore amante non corrisposto d’Eudamia ROSA BOVE
Eudamia, ninfa amante non corrisposta d’Elmiro VALERIA GIRARDELLO
Admeto, re di Tessaglia MICHELE PATTI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Diego Fasolis
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Maestro al clavicembalo e continuo Andrea Marchiol
Regia Fabio Ceresa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Giuseppe Palella
Light designer Fabio Barettin
Assistente alla regia e coreografo Mattia Agatiello
Ballerini Fattoria Vittadini
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 30 aprile 2019
Prosegue la veneziana Vivaldi Renaissance, incentrata sul repertorio per la scena, di cui si è fatto promotore, in particolare dall’inizio degli anni Duemila, il Teatro La Fenice con Ercole sul Termodonte e Bajazet (2007), cui hanno fatto seguito – a parte un Agrippo, rappresentato al Goldoni nel corso del Festival Galuppi 2008 – una versione scenica dell’oratorio Juditha triumphans (2015), l’Orlando furioso (2018), e quest’anno Dorilla in Tempe, in scena al Teatro Malibran in un nuovo allestimento con la regia di Fabio Ceresa e la direzione musicale di Diego Fasolis. Si tratta di un melodramma eroico-pastorale, su libretto di Antonio Maria Lucchini, rappresentato per la prima volta – nella versione originale interamente musicata dal Prete rosso – il 9 novembre 1726, al Teatro Sant’Angelo di Venezia, riscuotendo grande successo, anche grazie alle sontuose scene e a una lunga sequenza di danze raffiguranti una battuta di caccia. Successivamente, nel 1734, l’autore stesso – allora impegnato al Sant’Angelo in qualità di impresario, doverosamente sensibile agli umori del pubblico – trasforma la partitura dell’opera appena menzionata in un “pasticcio”, tramite la sostituzione di un buon numero di proprie arie con quelle di altri compositori alla moda – tra cui Hasse, Giacomelli, Sarro e Leo. Nulla di più normale, all’epoca! Ne risultò uno spettacolo – analogamente a quello del ’27 – dai mirabolanti effetti, che vide la partecipazione della sedicenne Anna Girò o Giraud, che sarebbe divenuta la cantante prediletta del genio veneziano, nonché – si dice – la sua amante..La versione rappresentata nel ’34 – oggi conservata nella Raccolta Foà della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino – è l’unica giunta fino a noi. Gradevoli davvero le scene e i costumi ideati rispettivamente da Massimo Checchetto e Giuseppe Palella, dove domina il bianco, con un impatto visivo, che fa tornare alla mente una serie di indovinati spot pubblicitari televisivi di qualche anno fa, inneggianti a “paradisiache” degustazioni del caffè di una nota marca. Bianca è la baroccheggiante scala, che campeggia plasticamente al centro della scena, con due rampe che, salendo da terra, per un tratto divergono, mentre più in alto diventano convergenti, confluendo su una terrazza. Bianchi i costumi di Dorilla, figlia del re Admeto, e del suo amante, il pastore Elmiro, nonché di Nomio, sotto le cui sembianze pastorali si cela il dio Apollo, innamorato non corrisposto della fanciulla. Tutto questo candore, comunque, viene ravvivato da decorazioni floreali dai caldi colori pastello, come risulta dall’abito con cui si presenta la protagonista, quasi una novella Flora di botticelliana memoria. Suggestivo e pregnante l’utilizzo delle luci da parte di Fabio Barettin, che con un illuminazione, di volta in volta, diffusa o concentrata, brillante o calda, riesce a sottolineare i vari momenti dell’azione. Ma a scongiurare il pericolo di una messinscena monocolore contribuisce in modo determinante anche il verde saturo dei costumi, di foggia orientale, indossati da altri personaggi, tra cui la coppia Eudamia-Filindo (rispettivamente ninfa e pastore), oltre al coro e ai mimi – questi ultimi, tra l’altro, protetti da una mascherina, modello “sala operatoria”, ad indicare una qualche insalubrità dell’aria, complice forse il mostro Pitone, che si nutre delle carni di fanciulle vergini e semina il terrore … Qualche monotonia, invece, si è colta, nei ruoli vocali, tutti affidati ad interpreti femminili – anche nel caso di personaggi maschili, per i quali era forse più opportuno il ricorso a controtenori – con la sola eccezione del timbro scuro di Admeto, re di Tessaglia. Una monotonia, che il regista si è sforzato di evitare sul piano drammaturgico, nella consapevolezza che il libretto del Lucchini è solo un pretesto, ai fini della spettacolarità e del virtuosismo, col pericolo che la rappresentazione si limiti a una sequenza di recitativi, arie e cori senza uno svolgimento narrativo né, tantomeno, una caratterizzazione dei personaggi. Così ha inteso assecondare la forma mentis razionale dello spettatore moderno, suggerendo un percorso evolutivo della protagonista, che da fanciulla obbediente diventa un’adolescente ribelle, mutando il suo rapporto con l’autorità. Ma non basta. Prendendo spunto dall’ouverture, dove Vivaldi inserisce il tema della Primavera, all’evoluzione di Dorilla fa da sfondo l’eterno morire e rigenerarsi della natura: il passaggio dalle tribolate vicende, che sembrano portare a una conclusione esiziale, all’apoteosi finale, con il rivelarsi di Nomio come Apollo – salvifico deus ex machina – ha qualcosa in comune con l’avvicendarsi delle stagioni. Parallelamente il regista ha lavorato per caratterizzare meglio i personaggi: così la ninfa Eudamia assume il carattere sacrale della veggente Pizia, mentre il suo innamorato, il pastore Filindo, diviene un dignitario orientaleggiante. Anche il re Admeto, una terribile figura di padre, che non esita a sacrificare la sua stessa figlia Dorilla, quando la Pizia decreta la necessità di darla in pasto al serpente Pitone, e nel prosieguo si dimostra analogamente un genitore inutilmente crudele, finisce per assumere i tratti di uno sprovveduto conferendo allo spettacolo qualche effetto di comicità e leggerezza. Un’evoluzione a livello psicologico rivela anche Nomio-Apollo, trasformandosi da delicato amante a dio irascibile e vendicativo, come risulta simbolicamente nella scena del terzo atto, in cui si decreta la morte di Dorilla e di Elmiro e contemporaneamente si svolge il supplizio di Marsia, il satiro che secondo il mito, viene scorticato vivo, per aver sfidato Apollo in una gara di abilità nel suonare uno strumento musicale. Certo non si poteva fare di più, dal punto di vista registico, di fronte ad un impianto drammaturgico così lontano dalla nostra sensibilità. Diverso è il discorso relativo all’esecuzione musicale, che peraltro ha cercato di adeguarsi all’impostazione registica; non a caso il direttore si è preso la libertà di inserire, anche in apertura degli atti successivi al primo, brevi ulteriori citazioni dalle rimanenti Stagioni. Tale esecuzione si è caratterizzata per un dinamismo decisamente trascinante, imposto da Diego Fasolis, che ha saputo trovare in ogni momento il giusto suono, l’adeguato accento, asciutto e brillante, di derivazione barocca, ottenendo dall’orchestra una disciplina, che è apparsa strabiliante, da parte di strumentisti abituati a cimentarsi prevalentemente con un diverso repertorio. Questo anche grazie alla presenza in buca di alcuni elementi presi in prestito dalla compagine dei Barocchisti – specialisti nel repertorio sei-settecentesco, che Fasolis ha formato e dirige ormai da anni – determinanti, insieme allo stesso maestro ticinese, nella realizzazione del basso continuo. Ma una parola va anche spesa per evidenziare l’elvetica precisione con la quale il direttore ha saputo guidare i cantanti, assicurando – con il suo gesto, come d’abitudine, ampio ed esplicito – un’ottima comunicazione col palcoscenico. Tutto ha funzionato, musicalmente parlando, alla perfezione, riscattando lo spettacolo, anche laddove poteva apparire, nonostante tutto, troppo statico o poco credibile sul piano drammaturgico. In sintonia con l’orchestra – come si è detto – il cast, che ha visto come protagonista il mezzosoprano Manuela Custer, già protagonista applauditissima nella ricordata Juditha triumphans, che ha tratteggiato senza pesantezze, con timbro omogeneo e gradevolmente timbrato, dimostrandosi ragionevolmente a suo agio nelle agilità – nonostante i tempi diffusamente serrati del direttore –, un personaggio credibile sul piano interpretativo. Le ha corrisposto, nel ruolo di Elmiro, una Lucia Cirillo – anche lei fattasi apprezzare recentemente dal pubblico della Fenice come Alcina nell’Orlando Furioso e tra i soli nel Requiem di Mozart – analogamente efficace sul piano vocale e autentica come personaggio, compatibilmente con l’estetica tardo-barocca. Infelice, irato o benigno, il Nomio-Apollo di Véronique Valdès ha conquistato il pubblico per la capacità di piegare i propri eccellenti mezzi vocali all’espressione dei vari stati d’animo che si succedono nel suo complesso personaggio. Encomiabili Valeria Girardello e Rosa Bove, rispettivamente Eudania e Filindo, che hanno trovato il giusto mezzo tra verve e sentimento – lui esile, lei più matronale –, così come il comico Admeto del baritono Michele Patti. Come sempre ineccepibile il coro. Bravissimi i mimi e i ballerini di Fattoria Vittadini. Grande successo con qualche accenno di ovazione. Foto Michele Crosera