Novara, Teatro Coccia: “La Traviata”

Novara, Teatro Coccia – Stagione d’Opera 2018-19
LA TRAVIATA
Libretto di Francesco Maria Piave dal dramma La dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta KLÁRA KOLONITS
Flora Bervoix CARLOTTA VICHI
Annina MARTA CALCATERRA
Alfredo  Germont DANILO FORMAGGIA
Giorgio Germont ALESSANDRO LUONGO
Gastone/ Giuseppe BLAGOJ NACOSCKI
Barone Douphol/ Commissionario ROBERTO GENTILI
Marchese d’Obigny CLAUDIO MANNINO
Dottor Grenvil ROCCO CAVALLUZZI
Orchestra del Teatro Coccia in collaborazione con l’Orchestra del Conservatorio Cantelli di Novara.
Coro San Gregorio Magno
Direttore 
 Matteo Beltrami
Maestro del Coro Mauro Rolfi
Regia Renato Bonajuto
Scene Sergio Seghettini
Costumi Matteo Zambito
Allestimento del Teatro Goldoni di Livorno
Produzione Fondazione Teatro Coccia
Novara, 03 maggio 2019
C’è qualcosa sicuramente di apprezzabile nella “Traviata” che il Teatro Coccia di Novara ha recentemente messo in scena, ma, sia chiaro fin da subito, non basta a dare un giudizio positivo su ciò che si è visto e sentito. C’è il Germont di Alessandro Luongo, ad esempio: cantante dal fraseggio nobile e scolpito, bella linea di canto, suono ricco – forse un po’ impersonale, a voler proprio spaccare il capello in quattro, ma complessivamente apprezzabile. Ci sono validi professionisti  impegnati nei ruoli di fianco: Carlotta Vichi (una Flora Bervoix maliarda e musicalmente accurata), Roberto Gentili (un barone Duphol molto coinvolto sul piano dell’interpretazione), Marta Calcaterra (un’Annina convincente, sia vocalmente che scenicamente), Rocco Cavalluzzi (corretto Grenvil) e Blagoj Nacoski (Giuseppe ben caratterizzato, al seguito del quale la regia ha pure affidato un cane, che naturalmente strappa la simpatia dell’intero teatro). Infine, ci sono le suggestive luci, calligrafiche quanto basta, nel tentativo di valorizzare giustamente la scena. Per il resto, più di una perplessità è legittimo che si sollevi (ah! la divina arte dell’eufemismo!), a cominciare dalla coppia dei protagonisti, che, incredibilmente, regalano due interpretazioni molto simili tra di loro – “incredibilmente” poiché sappiamo che il tenore è giunto ben oltre il corso d’opera e che il soprano è al suo debutto italiano. Klára Kolonits e Danilo Formaggia, infatti, mostrano limiti di corpo vocale, oltre ad essere  affetti da linee di canto disomogenee, fraseggi poco verdiani. Se la Kolonits mostra almeno un registro acuto una intonazione sicuri, Formaggia sembra sovente in affanno e/o non sembra sapere controllare  e mettere pienamente a fuoco le note; al contrario, sul piano dell’interpretazione, Formaggia si dimostra molto disinvolto, certamente impegnato nella resa scenica, mentre la Kolonits appare decisamente più compassata e manierata nella gestualità. Certo non si può dire che il team creativo di produzione aiuti i cantanti in tale frangente: i costumi di Matteo Zambito sono a dir poco penalizzanti – ad esempio: la Vichi, di statura non ragguardevole, è costretta in abiti che sicuramente non la aiutano e valorizzano, mentre la Kolonitz, decisamente slanciata, è “schiacciata” in abiti lunghi e monocoromi, che aggiungono al portamento un che di matronale; Formaggia, non viene minimamente ringiovanito, sembrando a tratti il padre di suo padre: in questo modo difficilmente si va oltre l’interprete, ma si rimane legati al dato anagrafico oggettivo – un uomo di mezza età che non può essere figlio di un altro evidentemente più giovane. Nemmeno le scene di Sergio Seghettini, dal canto loro, riescono a migliorare la situazione: con la bellezza di tre intervalli da circa venti minuti l’uno, ci si aspetterebbe ad ogni levata di sipario qualcosa di radicalmente diverso; invece, la scenografia è ben curata, ma anche abbastanza ordinaria – l’unico set più originale sarebbe il primo quadro del secondo atto, ambientato in un giardino con piscina dal gusto razionalista, ma questa viene tenuta sollevata e inclinata verso lo spettatore perché la veda, con un’ingenuità estetica  inaccettabile. Per il resto si sprecano oggetti di scena inutili o inutilizzati, citazioni di opere d’arte (Burri, Vedova) che vorrebbero rimandare agli anni Sessanta – almeno così dice la nota sul libretto di sala – e ogni tanto qualche scorcio neoclassico sullo sfondo, che si vorrebbe fossero frammenti di Novara. È evidente quindi che il problema non siano le scene in sé, ma la concezione registica di  Renato Bonajuto, che non sembra avere le idee chiare su molti aspetti dello spettacolo: forse è per questo che infarcisce la sua messa in scena di citazioni di regie già viste (ad esempio Carsen, Černjakov o Mussbach). È soprattutto il terzo atto a denunciare la sostanziale debolezza di questa regia: dopo due atti (e tre intervalli) costruiti in maniera naturalistica, cioè recitata e impostata imitando la realtà, l’ultimo atto presenta un pesante twist astratto, nel quale la scena è immersa nel buio, solo Violetta è in luce (confinata a letto) e tutti gli altri personaggi si muovono meccanicamente, tutti vestiti e truccati di grigio, senza guardarsi né toccarsi – l’effetto di preteso straniamento tocca il suo apice su un “Parigi, o cara” congelato; infine Violetta, invece  di morire, si avvia all’alba per una strada novarese comparsa alle sue spalle. Il pubblico non può che restare disorientato da questa scelta ingiustificata, specie dopo una serie di  eccessi teatrali cui fino a quel momento ha assistito: il mimare pugni o schiaffi senza nemmeno sfiorarsi (mancano solo le scritte “Kapow!” o “Badooooom” come nei fumetti), il già citato cane (terrorizzato) in scena, fino ad una volgare  pole dancer in biancheria intima più che succinta, durante la festa in casa di Flora. Dopo tutto questo bailamme, la conclusione sublimata, il tentativo psicologico dai richiami colti (Lynch, Fellini), suona fuori luogo, o, nel migliore dei casi, una extrema ratio di fronte a un vuoto d’ispirazione. In ogni caso, non si può fare di “Traviata”  un simile spettacolo, e certo non ce lo saremmo aspettato da un regista altre volte apprezzato per la sua misura, il composto tradizionalismo al limite con la maniera. La direzione d’orchestra del Maestro Matteo Beltrami piace al molto pubblico che la popolarità del titolo ha richiamato (che lo omaggia con molti applausi), ma presenta francamente alcune disomogeneità, rubati a volte poco efficaci, accenti marcati ove è preferibile una maggiore suggestione, un’unità di buca e scena non sempre pienamente raggiunta; buona la prova del Coro San Gregorio Magno di Trecate nel primo atto, più loffia nel secondo, dove alle zingarelle mancava mordente e coesione. La sala, comunque, pare non accorgersene e supporta i suoi beniamini con scrosci calorosi. Foto Marco Finotti