Genova, Teatro Carlo Felice: “Cavalleria rusticana” & “Pagliacci”

Genova, Teatro Carlo Felice – Stagione d’Opera 2018-19
CAVALLERIA RUSTICANA
Melodramma in un atto, su libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, dalla omonima novella di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza SONIA GANASSI
Turiddu DIEGO TORRE
Alfio GEVORG HAKOBYAN
Mamma Lucia CARLOTTA VICHI
Lola GIUSEPPINA PIUNTI
PAGLIACCI
Dramma in un prologo e tre atti
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda DONATA D’ANNUNZIO LOMBARDI
Canio DIEGO TORRE
Tonio CARLOS ÁLVAREZ
Beppe MATTEO ROMA
Silvio FRANCESCO VERNA
Un contadino GIULIANO PETOUCHOFF
Un altro contadino MATTEO ARMANINO
Orchestra, Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Paolo Arrivabeni
Maestro del Coro Francesco Aliberti
Maestro del Coro di Voci Bianche Gino Tanasini
Regia TeatriAlchemici (Luigi di Gangi e Ugo Giacomazzi)
Scene Federica Parolini
Costumi Agnese Rabatti
Luci Luigi Biondi
Nuovo allestimento in coproduzione Fondazione Teatro Carlo Felice – Fondazione Maggio Musicale Fiorentino
Genova, 24 maggio 2019
Il tradizionale dittico verista in scena a Genova si preannunciava promettente, ed effettivamente corrisponde alla maggior parte di queste aspettative. Dal punto di vista musicale, vero protagonista è il Maestro Paolo Arrivabeni: direttore sensibile, senza essere patetico, conduce un’orchestra coesa, omogenea, intenta alla resa dei colori, soprattutto attraverso legati suadenti e volumi controllati. Le corrispondenze tra buca e scena sono puntuali, i cantanti ben valorizzati. Tra gli interpreti è naturale che spicchi Diego Torre, poiché incaricato di entrambe le parti da protagonista (Turiddu e Canio): senza dubbio più disinvolto in Mascagni, la resa di Pagliaccio appare meno  coinvolta. Siamo comunque di fronte a un interprete talentuoso e capace, che si spende anche scenicamente e non solo vocalmente, preparatissimo  e tecnicamente di alto livello. Il suo Turiddu è notevolissimo, sia negli appassionati duetti sia nei momenti più lirici (in particolare nella “Siciliana” iniziale); momento più alto del suo Canio, invece, è, quasi ovvio, il  “Vesti la giubba“, mentre altre volte il fraseggio appare qua e la meno curato, pur mantenendo un’emissione ben sostenuta. Gli sono affiancate due interpreti femminili di assoluto valore: Santuzza è una sorprendente Sonia Ganassi, presente scenicamente e tecnicamente; il fraseggio è ben scolpito, massimamente espressivo, preciso nell’intonazione – qualche acuto teso ma che non inficia minimamente la bella linea di canto. Conferma di eleganza e temperamento dà anche Donata D’Annunzio Lombardi, una Nedda magistrale, appassionata e sognante quanto crudele e civetta. Dal punto di vista canoro la vocalità morbida dalle venature liriche della D’Annunzio si esprime al meglio in “Stridono lassù”, ma anche nel duetto con Silvio e nel ruolo di Colombina sa muoversi con eleganza, sfoggiando sicurezza espressiva e notevole solidità vocale. Quarta stella della serata – a nostro parere, forse la più brillante – è Carlos Àlvarez, un Tonio collaudatissimo, mai “gigione”, vocalmente in forma smagliante. Il suo “Prologo” scatena il delirio del teatro, che chiede a gran voce il bis (ragionevolmente non concesso dal Maestro Arrivabeni), e da lì è tutto un aspettarlo in scena, per godere delle sue grandi doti interpretative. Non è nemmeno più necessario sperticarsi in troppe lodi: semplicemente, Àlvarez è un grande vocalista e interprete baritono del nostro tempo. Anche i ruoli di fianco sono affidati a professionisti di chiara fama: spiccano senz’altro Carlotta Vichi (compostissima Mamma Lucia), Giuseppina Piunti (una conturbante Lola di marca bon ton) e soprattutto Gevorg Hakobyan nel ruolo di Alfio (successo personale nella sua aria di sortita, “Il cavallo scalpita”), tutti che mostrano fraseggio corretto, belle voci sane e impegno nella resa teatrale; anche il Silvio di Francesco Verna si fa ricordare, soprattutto per il bel timbro scuro e l’estensione sicura anche nella fascia più alta; infine il Beppe di Matteo Roma spicca per l’impegno scenico e l’emissione ben sostenuta. Il bel successo della compagine canora viene supportato anche dall’allestimento scenico dei palermitani TeatriAlchemici, capitanati dai registi Luigi di Gangi e Ugo Giacomazzi: il loro operato è certamente corretto e interessante, muovendosi nel solco della tradizione e del rispetto del libretto più di quanto la fama dei loro lavori di prosa, che li ha preceduti, lasciasse sperare. Come molti altri registi di impostazione prosastica (dalla celebre Emma Dante, loro conterranea, a Silvia Paoli, da Giorgio Gallione a Leo Muscato) anche gli Alchemici fanno largo uso di figuranti, specie bambini e preadolescenti, che, però, in questo caso, sembrano abbastanza avulsi dal contesto, per lo meno in “Cavalleria rusticana”. Lo sguardo del fanciullo sul teatro è certamente interessante, ma né originale né semplice da comunicare al pubblico, e non si può essere sicuri che questa volta l’esperimento sia riuscito. Le scene di Federica Parolini – intelligenti, giacché usano lo stesso fondale per entrambe le opere, cambiando solo parte dell’assetto scenografico – convincono di più in “Pagliacci”, dove una sorta di rudimentale sipario dell’inizio diventa quasi per magia il tendone di un circo per la tragica rappresentazione finale. L’uso, invece, di bracieri realmente infuocati, all’inizio di “Cavalleria”, non si emancipa dal pretestuoso, seppur catturi l’occhio del pubblico per diversi minuti. Altrettanto poco chiaro è il senso di alcune maschere più o meno tribali (che paiono simboli forse troppo elementari di una Sicilia arcaica e istintiva) e la scelta di introdurre i personaggi di “Pagliacci” su dei piedistalli mobili a balaustra. Belli e adeguati ai contesti sono i costumi di Agnese Rabatti, specie in “Pagliacci”, che certamente offre maggiore libertà creativa al costumista, rispetto alla rigorosa e quasi lugubre “Cavalleria Rusticana”. Le luci di Luigi Biondi, invece, sono l’aspetto più debole di questa produzione: alla ricerca dell’effetto calligrafico, a volte i personaggi principali si trovano in ombra, e l’impianto fotografico distoglie da essi l’attenzione del pubblico. Infine, ma non per ultimo, un convinto elogio va al Coro del Teatro Carlo Felice, in gran forma, potentemente espressivo e di ottima concertazione (splendida e delicatissima “Gli aranci olezzano” e di grande impatto il “Regina coeli”): ottimo il lavoro del Maestro Francesco Aliberti. Come già anticipato, il pubblico in sala tributa generose ovazioni al cast e al direttore d’orchestra, e non senza ragione, considerata la qualità dell’apparato musicale della produzione. Foto Marcello Orselli