Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – 82° Maggio Musicale Fiorentino
“LA STRANIERA”
Melodramma in due atti di Felice Romani. Edizione del 1829
Musica di Vincenzo Bellini
Alaïde SALOME JICIA
Il signore di Montolino SHUXIN LI
Isoletta LAURA VERRECCHIA
Arturo DARIO SCHMUNCK
Il barone di Valdeburgo SERBAN VASILE
Il Priore degli Spedalieri ADRIANO GRAMIGNI
Osburgo DAVE MONACO
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Fabio Luisi
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Mateo Zoni
Scene Tonino Zera e Renzo Bellanca
Costumi Stefano Ciammitti
Luci Daniele Ciprì
Nuovo allestimento del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 19 maggio 2019
Il Maggio Musicale in corso, dopo la prima rappresentazione a Firenze di un’opera contemporanea, il Lear di Aribert Riemann, prosegue portando in scena la Straniera di Vincenzo Bellini, altra prima assoluta fiorentina in tempi moderni di un’opera conosciuta e rappresentata, ma rimasta, come popolarità e frequenza, ai margini del corpus del compositore catanese e mai ripresa nei teatri fiorentini dopo il 1830.Con La Straniera, nata alla Scala nel 1829, il giovane Bellini replica il grande successo ottenuto due anni prima, sempre alla Scala, con Il Pirata, segnando l’avvio di una carriera fulgidissima, interrotta sei anni dopo dalla morte prematura. La Straniera ha un soggetto tratto dal romanzo “L’Etrangere” di Charles d’Arlincourt, basato sul fatto storico della strana bigamia di Filippo II, re di Francia tra dodicesimo e tredicesimo secolo. Il re sposa e presto ripudia Isemberga per prendere in moglie Agnese; sotto minaccia di scomunica è costretto ad accogliere nuovamente la prima moglie con lo status di regina e ad allontanare Agnese, che dovrà vivere sotto mentite spoglie, in terra straniera, evitata e temuta come creatura malefica e portatrice di sventura a causa dell’alone di mistero che la circonda. Alaïde, questo è il suo falso nome, non può rivelare a nessuno il suo stato e soprattutto non può amare ed essere amata, perché già sposa del re. Fatalmente, la passione proibita divampa, portando davvero sventure per tutti: per Arturo, l’amato, per il barone di Valdeburgo, fratello e protettore di Alaïde e per Isoletta, infelice promessa sposa di Arturo.
Bellini ha nuovamente per le mani una storia pienamente romantica che tratta con uno stile tragico e classicheggiante, allontanandosi progressivamente da Rossini e dal belcanto, e basando il suo linguaggio sulla forza della parola e sul declamato più che sulle sublimi melodie che hanno dato successo e immortalità a “La Sonnambula” e a “I Puritani”, tanto per fare qualche esempio. È probabilmente questa sorta di asciuttezza drammatica, rimasta sperimentale nell’intera produzione belliniana, che tanto colpì il pubblico del 1829, a minare la fortuna teatrale di questo lavoro e a decretarne la progressiva uscita dal grande repertorio. Il pubblico fiorentino odierno, tuttavia, mostra grande interesse per la riproposizione con l’affluenza massiccia a Teatro, per nulla scoraggiata dal clima di un maggio insolitamente invernale, e apprezzamento per questa produzione, che senza essere memorabile, aggiunge un tassello importante alla diffusione della produzione belliniana.
Fabio Luisi, alla testa dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, unisce alla consueta precisione e bellezza sonora, la cura per i colori, la varietà dinamica, la capacità di stringere e di far lievitare il tessuto sonoro senza perdere brillantezza ed eleganza, senza pesantezza o sentore di volgarità. L’accompagnamento al canto è attento e morbido, l’intensità talvolta sembra prevaricare il volume delle voci, in parte per le note caratteristiche acustiche della sala, in parte per motivi che si diranno di seguito, l’Orchestra lo segue docilmente con ottimi risultati, così come ottima risulta la prestazione del Coro. Il cast è dominato da Salome Jicia, Alaïde, giovane soprano di estrazione rossiniana, più volte presente al ROF in ruoli di protagonista; si tratta di una cantante in evidente crescita, interprete sensibile e partecipe, dalla recitazione efficace, dotata di uno strumento di bel timbro, dall’emissione sicura. I numerosi passaggi elegiaci enunciati a mezzavoce con legato purissimo e fraseggio elegante raggiungono un altissimo livello espressivo e formale; quando la temperatura drammatica sale, e con essa l’intensità richiesta a un canto che deve farsi tragico, emergono i limiti di una voce, al momento, non più che lirica. Tuttavia il canto è sempre bello e levigato, nettissimi i pochi passaggi di agilità, facili gli acuti, ad eccezione dei re naturali in fine d’opera, un po’ stirati. Il ruolo dell’innamorato Arturo è sostenuto da Dario Schmunck, tenore argentino poco conosciuto in Italia, dalla lusinghiera carriera ventennale. Schmunck ha un timbro notevolmente bello e canta bene, con voce omogenea e morbida, ha una dizione perfetta, un fraseggio nobile ed è capace di dare un senso ad ogni parola che pronuncia. Anche nel suo caso la personalità vocale coincide in parte con le richieste del ruolo: Arturo, nella prima versione del 1829 dedicata a Domenico Reina, ha una scrittura decisamente centrale, è un personaggio la cui fierezza venata di follia, tipica dell’eroe romantico, non è affidata alle frasi ascensionali brucianti e alle puntature astrali, ma all’intensità del declamato nel registro medio; Schmunck è un tenore contraltino tendenzialmente di grazia, dal volume non debordante, che dà il meglio di sé nelle frasi sfumate e nel registro acuto, che ha solido e facile. Serban Vasile è convincente nel ruolo di Valdeburgo, raro caso in cui il classico trio soprano-tenore-baritono non è chiuso da un antagonista ‘cattivo’, bensì da una tenera figura di fratello e amico animata da sentimenti di affetto e rettezza, un paladino nobile che si esprime con vocalità tornita; lo strumento del baritono rumeno, scuro e vellutato, non grande, di bel timbro è emesso con proprietà e buon legato, qualche occasionale suono nasale non disturba più di tanto, ed è ammirevole la sincerità commossa dell’interprete. Shuxin Li risulta invece un po’ pallido nel ruolo del signore di Montolino, mentre più incisivo e sonoro è Adriano Gramigni nel ruolo solenne del Priore degli Spedalieri.
Bella voce, chiara e ben proiettata, e sorprendente maturità mostra Dave Monaco, secondo tenore, nel ruolo del calunniatore Osburgo. Isoletta, innamorata delusa, si avvale della prestazione di Laura Verrecchia, cantante non ancora trentenne, corretta, dal timbro mediosopranile marcatamente chiaro, in possesso del sufficiente bagaglio tecnico e soprattutto interprete vibrante, dalla notevole sicurezza scenica. La messa in scena ha elementi di interesse nel suggerire un’atmosfera in cui un medioevo cupo si tinge di aspetti postmoderni, con elementi che ricordano l’estetica leggermente kitsch del cinema di fantascienza dei primi anni ’80 – un titolo che viene subito in mente è il cult movie Flash Gordon, del 1981 – nell’uso disinvolto di materie plastiche lucenti o metallizzate; tuttavia, se alcune scene di Tonino Zera e Renzo Bellanca possono risultare non sgradevoli, le fogge bizzarre dei costumi di Stefano Ciammitti, non tenendo minimamente conto del fisico degli interpreti, risultano spesso penalizzanti e antiestetiche, come la tutina di sottili strisce di perspex rosso trasparente che lascia poco più che nuda la protagonista, o la casacca-corazza di Arturo, così lunga da far apparire le sue gambette comicamente corte. La regia di Mateo Zoni non si caratterizza per grandi idee, con i solisti al proscenio, la gestualità più convenzionale e il coro intorno; pressoché inosservate passano le luci tenebrose di Daniele Ciprì. Foto Michele Monasta