Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2018-2019
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Diego Fasolis
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Soprano Michela Antenucci
Mezzosoprano Lucia Cirillo
Tenore David Ferri Durà
Basso Riccardo Novaro
Wolfgang Amadeus Mozart: “Requiem” in re minore per soli, coro e orchestra kv 626; “Thamos re d’Egitto” kv 345 n. 7a e n. 7; “Ave Verum Corpus” kv 618
Venezia,19 aprile 2019
La genesi del Requiem è legata alle oscure vicende relative agli ultimi mesi di vita di Mozart. Stendhal ne fa un racconto, avvolto in un’aura cupamente romantica. Un anonimo committente, presentatosi,nel cuore della notte, mascherato e avvolto in un mantello, avrebbe incaricato il musicista, afflitto dalla malattia e dall’indigenza, di comporre una Messa da requiem, quasi fosse un un inviato dall’oltretomba, venuto a commissionagli un Requiem celebrativo della propria fine imminente. Nella realtà, molto probabilmente, Mozart, nel luglio del 1791, all’età di 35 anni, ricevette da un commerciante suo creditore, Johann Puchberg, l’invito a scrivere una Messa da requiem su incarico del conte Franz Walsegg -Stuppach, che intendeva appropriarsi della paternità della composizione, per poi eseguirla pubblicamente con la sua orchestra, quale estremo omaggio alla moglie scomparsa. Il compenso di 400 fiorini era molto allettante e non poteva essere rifiutato, se non altro perché Mozart doveva a Puchberg una somma molto superiore. Così si vide costretto a cedere i diritti d’autore allo spregiudicato aristocratico. A metà settembre, rientrato a Vienna da Praga, il genio salisburghese conosce, nonostante il peggioramento della sua salute, un periodo di grande creatività: pur costretto a letto, a partire dal 20 novembre, non smette di lavorare al Requiem, fino al 4 dicembre. Muore il 5 dicembre, cinquanta minuti dopo la mezzanotte, lasciando l’opera largamente incompleta. La vedova di Mozart, Constanze – nel timore di perdere il denaro pattuito – si affrettò ad affidarne il completamento a tre allievi di Wolfgang: Joseph Eybler, Franz Freistädler e, infine, Franz Süssmayr. Quest’ultimo aveva avuto probabilmente la possibilità di suonare insieme a lui alcune pagine del Requiem. Il suo compito fu quello di rivedere il lavoro portato a termine da Eybler e Freistädler, oltre che di comporre i brani totalmente mancanti. A Süssmayr va attribuito il grande merito di averci consegnato un Requiem tutto sommato credibile, per quanto le pagine composte totalmente di sua mano – il “Sanctus”, il “Benedictus” e parte dell’“Agnus Dei” – non risultino del tutto amalgamate con il resto. A dirigere l’estremo capolavoro di Mozart, proposto dalla Fenice nel concerto del Venerdì Santo, era il ticinese Diego Fasolis, organista e direttore d’orchestra, uno dei massimi interpreti del repertorio barocco, già noto al pubblico veneziano per aver diretto L’Orlando Furioso. La versione del Requiem eseguita contemplava due varianti rispetto a quella tradizionale: infatti il “Sanctus” e il “Benedictus” erano proposti in una nuova veste musicale, attinta da un estratto dal Thamos, re d’Egitto, in particolare il n. 6: “Gottheit, Gottheit, über Alle mächtig”.
Dato che la morte, a ben guardare, è la vera meta della nostra vita, già da un paio di anni sono in buoni rapporti con questa vera, ottima amica dell’uomo, così che la sua immagine non solo non ha per me più niente di terribile, ma anzi molto di tranquillizzante e consolante! La concezione della morte, che emerge dalla precedente citazione – dalla lettera al padre, datata: Vienna, 4 Aprile 1787 –, pur espressa anche con funzione consolatoria nei confronti di Leopold morente, appare coerente con la visione esistenziale dell’anticonformista Amadé e decisamente lontana da toni funerei, patetici o angosciosi. Un approccio a questo tema cruciale analogamente scevro da esasperazioni emotive, si può cogliere anche nel Requiem, almeno nell’interpretazione offerta da Diego Fasolis. La sua lettura era tesa a far emergere l’energia, la teatralità sottese a tante pagine della partitura – sublime esempio, tra l’altro, di magistero contrappuntistico –, dove una virile, affermativa, titanica presa di coscienza di fronte al mistero della morte prevaleva su ogni possibile inflessione di sapore patetico o larmoyant. L’autorevole, rigoroso gesto direttoriale, amplificato da un’enfasi quasi teatrale, è riuscito ad ottenere dall’orchestra – assolutamente precisa e in sintonia – tempi diffusamente mossi, sonorità in prevalenza forti, nitide e brillanti, un’accentuazione dei contrasti e un’asciuttezza nell’espressione, che – come si è detto – escludevano quasi del tutto una dimensione intimistica o un atteggiamento di umana fragilità. Poteva risultare estraniante l’estrema scarnificazione del suono degli archi all’inizio dell’Introitus – una sorta di tenue pulsazione, evocante il corto respiro di un morente –, ma nel prosieguo dell’esecuzione tutti sono stati letteralmente conquistati dalla chiarezza, l’efficacia comunicativa dell’impostazione portata avanti coerentemente da Fasolis, con il timpano che tuonava inesorabilmente lungo il percorso liturgico. Determinante è stato il contributo del coro, cui è affidata una parte decisamente più estesa rispetto a quella delle voci soliste. Sapientemente istruito dal maestro Moretti, ha saputo adeguarsi con coerenza alla concezione di Fasolis, dimostrando una ferrea disciplina, che si è tradotta in perfetta coesione, assoluta precisione nella condotta delle voci, rigorosa compostezza nell’espressione. Una sicura professionalità si è colta negli interventi dei solisti – il soprano Michela Antenucci, il mezzosoprano Lucia Cirillo, il tenore David Ferri Durà e il basso Riccardo Novaro, che – sempre affiatati nei pezzi d’insieme – hanno quantomeno cercato di adeguare le loro rispettive vocalità alle intenzioni del direttore.
Seguivano due estratti dalle musiche di scena per il dramma eroico Thamos re d’Egitto di Tobias Philipp Freiherr von Gebler, composte a Salisburgo nel 1779: la musica di chiusura (n. 7a) e il coro finale con basso solo (n. 7), dall’atto quinto. Sono pagine di rarissima esecuzione. Il compositore, deluso dall’esito modesto del dramma di Freiherr von Gebler, ma consapevole del valore della sua musica – purtroppo destinata a soccombere insieme al dramma stesso – ne ha recuperato alcune parti, adattandovi testi di carattere sacro: tra queste, il brano vocale presentato nella serata, che il basso Riccardo Novaro ha cantato con buone capacità di fraseggio, per quanto il timbro non abbastanza scuro, gli abbia precluso la possibilità di trovare il giusto tono solenne. Ottima la prestazione del coro, che ha confermato la sua ottima preparazione. Molto espressiva l’orchestra nel pezzo strumentale precedente: una sorta di recitativo, dai toni esasperati, di sconvolgente modernità.Il concerto si è concluso sommessamente “in gloria” con il delicato mottetto eucaristico “Ave verum corpus”, tra le ultime composizioni di Mozart, forse una delle sue pagine di più nobile afflato religioso, non solo per il testo ma anche per la purezza della stesura musicale, quasi ispirata ad una visione celeste. Sono stati tre minuti di musica di rara bellezza, complice ovviamente il rigore stilistico del coro. Successo pieno e convinto.