Napoli, Teatro di San Carlo: “Madama Butterfly”

Napoli, Teatro di San Carlo di Napoli, Stagione d’opera e danza 2018/2019
MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica tratta dalla tragedia Madame Butterfly di David Belasco, a sua volta tratta dal racconto Madame Butterfly di John Luther Long
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly EVGENIA MURAVEVA
F. B. Pinkerton SAIMIR PIRGU
Suzuki RAFFAELLA LUPINACCI
Sharpless GIOVANNI MEONI
Goro LUCA CASALIN
Lo zio Bonzo ILDO SONG
Il principe Yamadori NICOLÒ CERIANI
Kate Pinkerton ROSSELLA LOCATELLI
Il Commissario Imperiale ENRICO DI GERONIMO
L’Ufficiale del registro ANTONIO DE LISIO
La Madre di Cio-Cio-San ANNAMARIA NAPOLITANO
La cugina LUCIA GAETA
Dolore LORENZO MATTIA MORESCHI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Gabriele Ferro
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Ferzan Özpetek
Scene Sergio Tramonti
Costumi Alessandro Lai
Luci Pasquale Mari
Napoli, 18 aprile 2019
Dopo tre anni ritorna, al Teatro di San Carlo di Napoli, Madama Butterfly, tragedia giapponese in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, la cui prima avvenne il 17 febbraio del 1904, al Teatro alla Scala di Milano. Questa messinscena napoletana risulta essere una esecuzione smacchiata da ogni sorta d’incrostazione manierista e caratterizzata, dunque, dalla restituzione d’intuizioni atmosferiche autentiche, operata dal Mº Gabriele Ferro. L’egregio interprete spazza via quell’estenuante sentimentalismo decadente e scontato preferendo, a quelle soluzioni, un accompagnamento composto da una essenziale bellezza timbrica e, all’occorrenza, da raffinate tinte ovattate ed impressionistiche. Un suono, dunque, quello dell’Orchestra del San Carlo, appassionato. La  lettura della partitura si piega totalmente all’impegno scenico e rappresentativo. Ciò è ravvisabile soprattutto nell’avvenuta valorizzazione dei contrasti che compongono la tragedia: il misurato microcosmo esotico irrimediabilmente soccombe sotto l’imperante Occidente, rappresentato dall’Inno della marina statunitense (divenuto effettivamente Inno nazionale più tardi).  Una esecuzione basata su una buona corrispondenza tra buca e palcoscenico, avvenuta attraverso lo sguardo “rivoluzionario” del regista Ferzan Özpetek, con scene progettate da Sergio Tramonti e con luci create da Pasquale Mari. Invece, Alessandro Lai, si è occupato dell’ideazione dei costumi, tanto raffinati, particolarmente sobri e a tinte calde. Özpetek, maestro del grande schermo, ribalta completamente la vicenda, occultando il carattere umano del carnefice, Pinkerton, sublimato a mero strumento che la donna adopera per la realizzazione d’un piano tramato fin dall’inizio: la conquista d’un Paese nuovo, d’un tetto nuovo. Alla base dell’operata sublimazione del personaggio maschile, ormai burattino espropriato della sua volontà individuale, vi starebbe la necessità “naturale” della protagonista d’appagare le sue aspirazioni. Quando Butterfly entra in scena: non cessa d’osservare morbosamente la sua preda, creduta forse troppo ingenua, e che a breve manifesterà la sua sofferenza per il mondo nipponico, soffocato e soffocante, contrassegnato anche da una sessualità ossessiva e multiforme. Questo elemento sembra predominare in Suzuki e  Goro. La prima, dal suo comportamento, appare innamorata della sua padrona; ovviamente si tratta d’un amore represso che svelasi solo quando le due donne timidamente si scambiano un tenero bacio, sfiorandosi le labbra. Forse solo Suzuki, nel disegno del regista, avrebbe potuto donare a Butterfly quel «bene piccolino» tanto cercato in Pinkerton. Invece, l’irrequietezza dell’altro volto della sessualità risiede nel personaggio del sensale, trasformato da Özpetek in un personaggio dalla sessualità ambigua. Particolarmente significativa appare poi la scena durante la quale i novelli sposi consumano, in modo sorprendentemente realistico, la prima notte di nozze su un velo bianco, lo stesso velo sopra cui ella si toglierà la vita, tagliandosi la gola con la lama paterna.  Una scena che risulta necessaria, non già per mero esibizionismo, ma per instaurare un rapporto tra amore e morte, dualismo peraltro fortemente presente nella cinematografia del regista. La vicenda si sviluppa in scene probabilmente poco adatte per sostenere l’ambizioso e complesso disegno narrativo e rappresentativo del regista. Appaiono scarne e minimaliste, contrassegnate da una asfissiante cupezza che attraversa tutta la scena, dal legnoso villaggio giapponese all’austera galera immaginifica, dimora della protagonista. Unica consolazione sembra essere una fessura praticata dall’immaginazione consolatrice della donna nelle soffocanti pareti casalinghe. Sullo sfondo, toccato da intimistiche e rarefatte luci, un mare mosso, dove Madama Butterfly ancora spera d’intravedere la nave del marito. Felice esito per la compagnia di canto. Il soprano Evgenia Muraveva (Madama Butterfly), dotata d’una intensa incisività vocale, scava profondamente il suo personaggio con una prestazione degna del suo ruolo. Attenta al fraseggio pucciniano, sorprende per un caldo temperamento, per duttilità di fraseggio, che supporta un comportamento teatrale profondamente sensibile ed autentico: mai ingenua bambola, ma donna consapevole. Il tenore Saimir Pirgu è un Pinkerton autenticamente  rispondente alla tempra sprezzante del suo personaggio. La vocalità è brillante e il fraseggio sufficientemente vario. Il baritono Giovanni Meoni ha un voce chiara di bel timbro, linea di canto morbida e “cordiale” per darci uno Sharpless apprezzabile e credibile. Da apprezzare appare anche la capacità interpretativa e la sensibilità vocale e  teatrale del mezzosoprano Raffaella Lupinacci che trasforma Suzuki in una figura di grande spicco. Su un ottimo livello il resto della compagnia: Luca Casalin (Goro), Ildo Song (lo zio Bonzo), Nicolò Ceriani (Yamadori), Rossella Locatelli (Kate Pinkerton), Enrico Di Geronimo (il Commissario Imperiale), Antonio De Lisio (l’Ufficiale del registro), Annamaria Napolitano (la madre di Cio-Cio-San), Lucia Gaeta (la cugina), Lorenzo Mattia Moreschi (Dolore). Notevole appare anche l’apporto del Coro, magistralmente preparato da Gea Garatti Ansini. Pieno successo, dunque, per una messinscena che ha destato curiosità soprattutto per la “rivoluzionaria” regia di Özpetek. Foto Luciano Romano