A 150 anni dalla morte.
Grande Messe des Morts op. 5
Durata: 85’ca
Per dare nuovo lustro alla musica religiosa in Francia, il Ministro dell’Interno De Gasparin, nel 1836, decise di stanziare una somma da dare ogni anno ad un compositore affinché scrivesse una Messa o un grande oratorio. La scelta per il primo anno cadde su Berlioz al quale commissionò un Requiem nonostante i tentativi fatti contro tale decisione dal direttore delle Belle Arti che non condivideva il progetto del Ministro. Infine, ricevuta la commissione alla vigilia dell’ultimo giorno dell’incarico del Ministro, Berlioz si dedicò con grande intensità a questo prestigioso lavoro che avrebbe dovuto essere eseguito a luglio durante il servizio funebre in memoria di tutte le vittime della rivoluzione del 1830. Ai primi di luglio del 1837 il Requiem era pronto e tutte le parti dell’orchestra copiate; erano iniziate anche le prove a sezioni per le voci quando il 18 luglio per caso Berlioz venne a sapere che il governo, per ragioni politiche, aveva soppresso la cerimonia. La delusione iniziale fece ben presto posto alla rabbia, quando una notizia insperata rianimò Berlioz. Il 14 ottobre era stata presa la città di Costantina e, poiché il generale Damrémont aveva perso la vita durante l’assedio, era stata fissata per commemorarlo, insieme ai soldati francesi morti, una cerimonia solenne. Fu deciso di far eseguire il Requiem a patto che lo dirigesse Habeneck che da tempo dirigeva le musiche ufficiali delle grandi feste. Il Requiem fu eseguito nella cappella degli Invalides il 5 dicembre 1837 alla presenza di principi, di ministri, della stampa nazionale ed estera e di una folla immensa, ma il suo successo fu messo pericolosamente a rischio come Berlioz ricordò nei suoi Mémoires:
“I miei esecutori erano divisi in più gruppi abbastanza lontani gli uni dagli altri, e bisogna che sia così per le quattro orchestre di strumenti di ottoni che io ho impiegati nel Tuba mirum e che devono occupare un angolo della grande massa vocale e strumentale. Al momento della loro entrata, all’inizio del Tuba mirum che s’incatena senza interruzione con il Dies irae, il movimento si allarga del doppio. Tutti gli ottoni squillano dapprima insieme nel nuovo movimento, poi si interpellano e si rispondono a distanza con entrate successive sovrapposte alla terza superiore le une alle altre. È dunque della massima importanza di chiarimento indicare i quattro tempi della grande misura nell’istante in cui interviene […]. In seguito alla mia sfiducia abituale ero rimasto dietro Habeneck e, girando il dorso, sorvegliavo il gruppo dei timpanisti, che non poteva vedere, avvicinandosi il momento in cui essi avrebbero preso parte alla mischia generale. Ci sono forse 1000 misure nel mio Requiem. Precisamente su quella di cui ho appena parlato, quella in cui il movimento si allarga, quella in cui gli ottoni lanciano la loro terribile fanfara, sulla misura unica infine nella quale l’azione del direttore è assolutamente indispensabile, Habeneck abbassa la sua bacchetta, trae tranquillamente la sua tabacchiera e si mette a prendere una presa di tabacco. Io avevo sempre l’occhio dalla sua parte; immediatamente giro rapidamente su un tallone e lanciandomi davanti a lui, stendo il mio braccio e marco i quattro grandi tempi del nuovo movimento. Le orchestre mi seguono, ogni parte in ordine, io dirigo il brano fino alla fine, e l’effetto che avevo sognato è prodotto. Quando, alle ultime parole del coro, Habeneck vide il Tuba mirum salvato: «Che sudore freddo ho avuto, mi disse, senza di lei eravamo persi!». «Sì, lo so bene, risposi guardandolo fissamente». Non aggiunsi una parola… l’ha fatto apposta? Sarebbe possibile che quest’uomo, d’accordo con il signor XX…, che mi detestava, e gli amici di Cherubini, abbia osato meditare e tentare di commettere una così bassa scelleratezza? Io non voglio pensarci… ma non ne dubito: Dio mi perdoni se gli reco ingiuria”.
Dopo questa prima esecuzione salvata da Berlioz, Habeneck, chiamato a dirigere dei brani musicali al primo Festival di Lille, propose al comitato organizzativo, insieme al Credo di una messa di Cherubini, il Lacrymosa del Requiem che riscosse un successo tale da essere bissato nonostante le enormi dimensioni. Non essendo presente, Berlioz fu reso edotto dell’ottimo risultato da un breve biglietto di Habeneck che scrisse:
“Mio caro Berlioz io non posso resistere al piacere di annunciarle che la sua Lacrymosa perfettamente eseguita ha prodotto un effetto immenso.
Devotamente Vostro.
Habeneck”
Una particolarità di questa Grande Messe des Morts è la disposizione dei quattro gruppi aggiunti da Berlioz attorno all’orchestra principale: un gruppo, costituito da quattro cornetti a pistone, quattro trombe e due tube, collocato a Nord; il secondo, formato da quattro trombe e da quattro tromboni ad est; il terzo, formato da quattro trombe e da quattro tromboni ad ovest e, infine, il quarto, formato da quattro trombe, quattro tromboni, quattro tube e un grande apparato di percussioni a sud. A questa orchestra si aggiunge un coro dalle ampie dimensioni, composto da ottanta soprani contralti, sessanta tenori primi e secondi, settanta primi e secondi bassi e un tenore solista che canta solamente nel Sanctus. L’organico imponente, che prevede la presenza di 108 archi e di un coro di 210 elementi, che, secondo i casi, può essere ampliato, in base alle indicazioni di Berlioz stesso a 700 o 800 cantanti, ha suscitato una certa diffidenza nei confronti di questo lavoro, giudicato troppo semplicisticamente come l’espressione di una presunta megalomania del compositore. In realtà Berlioz volle sperimentare in questa sua opera delle nuove disposizioni spaziali e impasti timbrici di grande effetto.
Il clima mesto della composizione appare già nel primo brano Requiem et Kyrie, un Andante poco lento, la cui introduzione orchestrale consiste in una mesta frase ascendente di violini e viole che viene ripetuta con un arricchimento timbrico da parte dei legni. La parte del coro è fondamentalmente recitativa e sillabica se si eccettua un vocalizzo dei soprani sulla parola Dona, mentre gli strumenti gravi eseguono un ostinato sul quale si costruisce l’intera composizione. Dopo un punto coronato, le voci maschili intonano il Kyrie eleison in una scrittura sillabica, mentre l’orchestra li accompagna con un delicato pizzicato. Il ribattuto del Kyrie si distende in una drammatica melodia cromatica discendente sulle parole Christe eleison. Molto semplice è anche l’introduzione orchestrale del successivo Dies irae, Moderato, il clima altrettanto mesto è reso dalla melodia affidata ai timbri scuri di violoncelli e contrabbassi. I soprani intervengono, intonando una melodia di ascendenza liturgica, mentre la scrittura si fa sempre più elaborata dal punto di vista contrappuntistico con passi che richiamano la forma medievale del conductus. Solenni note fisse affidate ai soprani, a cui rispondono delle melopee dei tenori, conducono al Tuba mirum, un Andante maestoso, dove intervengono le quattro fanfare supplementari che con le loro sonorità incutono un senso di paura che si fa terrore alle parole Mors stupebit et natura judicanti responsura, cantate su un pianissimo. Il brano successivo, Quid sum miser, Andante un poco lento, che, secondo quanto indicato da Berlioz, deve essere eseguito avec un sentiment d’humilité et de crainte (con un sentimento di umiltà e di paura), esprime questi stati d’animo grazie ad una considerevole riduzione dell’organico ai soli violoncelli e contrabbassi per quanto riguarda gli archi e ai soli corni inglesi e fagotti per i legni, i quali introducono una frase misteriosa ripresa dal coro, qui limitato alle sole voci maschili. Carattere solenne presenta il Rex tremendae, che si contrappone al precedente per l’utilizzo delle quattro fanfare. Il carattere solenne è confermato dalle lunghe e accentuate note del coro sulla parola ripetuta Rex, mentre il tema centrale è costituito da un disegno di due note discendenti sulle parole Salva me che interrompono una scrittura di carattere imitativo. Questo disegno viene riproposto in diverse situazioni timbriche e tonali sino alla conclusione del pezzo in pianissimo dove il coro canta Salva me, fons pietatis. Stabilendo ancora una contrapposizione di masse, Berlioz, nel brano successivo, Quaerens me, Andante sostenuto, rinuncia all’orchestra e rende protagonista il coro, il quale con le parti dei tenori e dei bassi divisi procede in una scrittura a sei voci prevalentemente omofonica e monodica. Nel successivo Lacrymosa, Andante non troppo lento, l’organico è nuovamente al completo per esprimere il dolore tramite una scrittura spezzata tra i violoncelli e i contrabbassi da una parte e i legni dall’altra punteggiata dalle strappate dei violini e delle viole, mentre i tenori intonano una melodia mesta e cantilenante. Il secondo tema, che inizia sulla parola Lacrymosa, è una melodia dolce assai, come è indicata a Berlioz stesso, su un accompagnamento in terzine degli archi a cui si aggiungono man mano le altre voci e gli strumenti in un lento crescendo realizzato con una scrittura stereofonica con gli interventi degli ottoni ai lati e il rullare dei timpani da sud. Dal punto di vista armonico il brano si sviluppa in una contrapposizione tra il la maggiore e il la minore, tonalità di impianto e si conclude con un pianissimo. Carattere solenne presenta l’Offertorium, Moderato, che si apre con un fugato degli archi sul quale il coro interviene rielaborando il disegno della seconda battuta del tema, sul quale è costruito l’intero brano. Nell’Hostias et preces, Andante non troppo, si assiste ad un esperimento di carattere timbrico ottenuto attraverso una spazializzazione sonora; l’organico è, infatti, ridotto, oltre agli archi, a tre flauti dell’orchestra principale, ai quali si aggiungono quattro tromboni del terzo gruppo e quattro del quarto. Il coro, a sua volta ridotto, alle sole voci maschili suddivise in quattro parti, presenta una carattere omoritmico e sillabico. Nel Sanctus, Andante un poco sostenuto e maestoso, interviene il tenore solista che intona una melodia molto semplice ripresa dal coro femminile a tre voci (due di soprano e una di contralto). Un cambiamento di andamento caratterizza l’Hosanna, Allegro non troppo, che si presenta in stile fugato con le voci che vengono raddoppiate dagli archi. Dopo la ripresa del Sanctus, ritorna ancora una volta l’Hosanna di grande respiro polifonico. Nell’ultimo brano, Agnus Dei, Andante un poco lento, la massa orchestrale viene riformulata con l’utilizzo di quattro tromboni del primo, del secondo e del terzo gruppo, e quattro tromboni e due tube del quarto. Esso presenta un carattere solenne negli accordi tenuti dai fiati a cui rispondono in eco le viole, mentre il coro si muove in una scrittura omoritmico-accordale. Tutto il brano produce una sensazione mistica resa dalla raffinata ricerca timbrica e dalla valorizzazione delle pause.