Genova, Teatro Carlo Felice: “Rapsodia Satanica” & “Gianni Schicchi”

Genova, Teatro Carlo Felice – Stagione d’Opera 2018-19
RAPSODIA SATANICA
Proiezione del film muto del 1917 di Nino Oxilia, restaurato dalla Cineteca di Bologna.
Musiche originali di Pietro Mascagni, eseguite dal vivo.
GIANNI SCHICCHI
Opera in un unico atto di Giovacchino Forzano
Musica di Giacomo Puccini
Gianni Schicchi FEDERICO LONGHI
Lauretta SERENA GAMBERONI
Zita SONIA GANASSI
Rinuccio MATTEO DESOLE
Gherardo ALDO ORSOLINI
Nella FRANCESCA BENITEZ
Gherardino MICHELA GORINI
Betto di Signa ENRICO MARABELLI
Simone LUIGI RONI
Marco MARCO CAMASTRA
La Ciesca ELENA BELFIORE
Maestro Spinelloccio/ Ser Amantio di Nicolao MATTEO PEIRONE
Pinellino DAVIDE MURA
Guccio GIUSEPPE PANARO
Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore
Valerio Galli
Regia Rolando Panerai
Scene
Enrico Musenich
Costumi Vivien Hewitt
Luci Luciano Novelli, riprese da Angelo Pittaluga
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 13 aprile 2019
Il Teatro Carlo Felice di Genova aveva annunciato, nel suo cartellone, un importante titolo di musical americano, ancora molto poco frequentato in Italia, e per questo ancora più ghiotto: “Sunset Boulevard“ di Andrew Lloyd Webber. Per cause di forza maggiore, tuttavia, a qualche settimana dalla prima, il titolo di questa produzione salta, e viene sostituito da una serata comunque “diversa dal solito”, almeno per un teatro d’opera: si decide, infatti, di proiettare, come in un cinema, “Rapsodia satanica“ di Nino Oxilia, mediometraggio muto del 1913, nobilitato da musiche che Pietro Mascagni appositamente scrisse, in questa sede eseguite dal vivo dall’orchestra. Trattandosi di un’oretta scarsa, gli si accosta “Gianni Schicchi“ di Puccini, unico excursus nel comico del maestro toscano, prescelto forse per stemperare l’atmosfera del film. Questa strana accoppiata, tuttavia, funziona più del previsto: “Rapsodia satanica“ è una specie di manifesto cinematografico del liberty e del dannunziano – incarnato nella protagonista Lyda Borelli, autentica opera d’arte vivente, nelle sue espressioni codificate, i gesti emblematici, gli sguardi senza fine – e pare dunque appropriato l’accostamento a un’operina fresca, tagliente, attualissima, quale “Gianni Schicchi“; inoltre, va detto che sono due tipologie di spettacolo diverse, non necessariamente in contrasto tra loro, ma senz’altro di non facile assimilazione (basti pensare che l’ispirazione della prima è “Faust” e per la seconda si scomoda addirittura padre Dante). L’orchestra del teatro dà una bellissima prova di sé, un plauso al maestro Valerio Galli, che, pure, è evidentemente più a suo agio con l’atto unico pucciniano, di quanto non lo sia con l’ammaliante, ricca e variegata musica per film (le discrepanze tra schermo e buca si sentono, ma è un esercizio così raro e difficile che sarebbe assurdo aspettarsi un risultato perfetto). La partitura mascagnana risente, a causa del soggetto e dell’estetica del film, a tratti dell’influenza impressionista francese, in altri momenti dell’esperienza wagneriana, assestandosi su una scrittura tutta al servizio della suggestione, ma anche mostrandoci un’immagine che si crea davanti ai nostri occhi come privilegiata creatura musicale. In alcuni passaggi la scissione tra narrazione filmica e partitura è impossibile: sono gemelle siamesi, entrambe mirabili figlie di quell’estetica decadente-simbolista che il poeta (più che regista) Oxilia ha scelto come sua, prima di abbandonarsi al fervente interventismo che in un certo senso gli fu fatale. Il mondo del film è un’italietta di aristocratiche sans soucis, di malinconici amanti suicidi, di balli in maschera senza fine e paesaggi artificiali, di spiritismo e psicanalisi: un vero bazar belle époque, una summa di estetismo, con tanto di disagio umano incarnato dal personaggio di Satana, inquietante maschera che getta su tutto un’ombra di tenebra ineluttabile. Mascagni, leggendo il soggetto, ha dato fondo a tutte le sue conoscenze, sviluppando grundmotiv, ma anche prediligendo atmosfere sovraccariche di patetici languori, repentini stravolgimenti ad effetto, toni magniloquenti. Ne emerge non una “colonna sonora”, ma una vera musica di scena, che concorre a raffigurare la vicenda attraverso le sue pennellate orchestrali. Dopo l’ardua scalata di quest’erta montagna, la prova di “Gianni Schicchi” non può che essere in discesa, per quanto certo non riposante: siamo comunque di fronte a una partitura del Puccini maturo, anch’egli che strizza l’occhio a Wagner, che quasi rifiuta il numero chiuso (con poche eccezioni, tra le quali la celeberrima “O mio babbino caro”), che cerca l’autonomia espressiva di ogni singolo strumento, pur nella concertazione. Ancora bravo il maestro Galli per la sapiente direzione, stavolta sì, pienamente in sintonia con il palco. Il cast contribuisce enormemente a questo successo: lo Schicchi di Federico Longhi è collaudatissimo, ma il baritono si presta comunque ai giochi scenici dell’indimenticato Rolando Panerai (qui regista, coadiuvato da Vivien Hewitt, esperta pucciniana), che, per quanto nel solco della tradizione, funzionano ancora e strappano risate. La voce di Longhi è sicura, sonora, il fraseggio solido non teme né l’élan comico né l’amaro livore del personaggio. Altrettanto positiva l’interpretazione di Rinuccio ad opera di Matteo Desole: il tenore sardo si riconferma uno dei giovani migliori della sua generazione, sfoderando notevole disinvoltura sull’estensione e un timbro lirico,  dagli armonici squillanti e solido  nei centri (ottimo in “Firenze è come un albero fiorito”). A completare il terzetto dei protagonisti, pur in un ruolo non certo impegnativo, è Serena Gamberoni, una Lauretta smagliante, vocalmente espressiva e trasognata, chiara e al contempo dotata del giusto languore. I non pochi ruoli di lato sono interpretati correttamente, pur senza prove esaltanti – brava Sonia Ganassi nel ruolo di Zita, anche se non del tutto a proprio agio con la tessitura del ruolo; giustamente senile il Simone di Luigi Roni; gustosamente caratterizzati il Medico e il Notaio di Matteo Peirone; gradevoli Nella (Francesca Benitez) e Ciesca (Elena Belfiore), soprattutto nel terzetto con Zita. L’insieme del cast è, comunque, scenicamente molto attivo, e concorre con dispendio di energie al gioco drammaturgico. Le uniche perplessità sono destate dal team creativo di scena: se l’apporto di Vivien Hewitt alla regia di Panerai è da ritenersi indiscutibilmente prezioso, non convincono del tutto  i costumi della stessa Hewitt, dai colori sgargianti; l’ambientazione è fedele al libretto, chiaramente, più che al Medioevo, e il riferimento è quello dei figurini novecenteschi di Caramba. Parimenti, non convince la scena di Enrico Musenich, troppo spartana, e incorniciata da una veduta di Firenze che ricorda i tratti di Luzzati, ma senza una ragione intelleggibile. Apprezzabile, invece, il progetto luci di Luciano Novelli, ripreso da Angelo Pittaluga. Nel complesso dunque una piacevolissima serata, purtroppo disertata dal pubblico più integralmente melomane: il teatro è men che mezzo pieno, ma gli spettatori presenti tentano di scaldare a dovere gli artisti tributando sincere, e meritate, ovazioni.