Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2018-2019
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Dramma giocoso per musica in due atti
Libretto di Angelo Anelli
Musica di Gioachino Rossini
Mustafà, bey d’Algeri SIMONE ALBERGHINI
Isabella, signora italiana CHIARA AMARÙ
Lindoro, giovine italiano
Taddeo, compagno d’Isabella OMAR MONTANARI
Elvira, moglie di Mustafà GIULIA BOLCATO
Haly, capitano de’ corsari algerini WILLIAM CORRÒ
Zulma, schiava confidente d’Elvira CHIARA BRUNELLO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Giancarlo Andretta
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Maestro al fortepiano Roberta Ferrari
Regia Bepi Morassi
Scene Massimo Checchetto
Costumi Carlos Tieppo
Light designer Vilmo Furian
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 28 febbraio 2019
La Fondazione Teatro La Fenice propone in un nuovo allestimento uno dei capolavori comici di Gioachino Rossini: L’italiana in Algeri, undicesimo titolo del catalogo rossiniano, composta in appena 18 giorni – riutilizzando un libretto di Angelo Anelli, già messo in musica da Luigi Mosca, ma parzialmente modificato da Gaetano Rossi – su commissione dell’impresario del Teatro San Benedetto di Venezia, Giovanni Gallo, che aveva ingaggiato in gran fretta il “tedeschino” – così Rossini era soprannominato in gioventù, a sottolineare talune sue affinità stilistiche con Mozart –, per sostituire un altro musicista, allora in voga, che – incaricato di comporre un’opera – non aveva rispettato gli impegni contrattuali. Il nuovo dramma giocoso rossiniano debuttò, con successo, al Teatro San Benedetto il 22 maggio 1813, nello stesso anno in cui, qualche mese prima, alla Fenice, aveva visto trionfalmente la luce il Tancredi, e dopo le prime assolute, a partire dal 1810, delle cinque farse al Teatro San Moisé; il che testimonia della straordinaria capacità creativa di Rossini – tra i diciotto e i ventun anni! – come dell’importanza del suo legame con la città lagunare. Di fronte alla drammaturgia spesso surreale, che la musica di Rossini accentua con le sue stravaganti invenzioni – di “follia organizzata e completa” aveva parlato Stendhal a proposito dell’Italiana come, peraltro, di “perfezione del genere buffo” – la concezione registica di Bepi Morassi, testimoniata anche dalle essenziali scene di Massimo Checchetto, gioca molto sugli aspetti simbolico-evocativi, oltre che su tutta una serie di trovate diffusamente iperrealistiche; il tutto al fine di valorizzare il perfetto – e follemente geniale – meccanismo teatrale, ideato da Rossini. Il regista sposta la vicenda ai primi del Novecento; un contesto storico comunque vagamente evocato, mai precisamente definito, che si caratterizza anche grazie a qualche citazione da un film del primissimo Fellini come Lo sceicco bianco. La naufraga Isabella diviene una specie di diva del cinema muto che, anche dopo essere stata catturata dai pirati, continua a distribuire autografi e a posare per le foto. Anche il Bey Mustafà – che compare sulla scena in abiti da sceicco –, ha un comportamento capriccioso, tanto che vuole abbandonare la moglie Elvira, per quanto bella e fedele, per tentare di sedurre una donna “esotica” come l’italiana Isabella, arrivando a travestirsi da esploratore inglese. Anche il naufrago Taddeo, cicisbeo di Isabella – secondo Morassi, la figura più buffa di tutta l’opera –, si camuffa, indossando i panni di un kaimakan (luogotenente), con ben tre cambi d’abito in scena. In sintonia con la vicenda – che, avendo tra i personaggi dei naufragi, si svolge in parte sulla spiaggia di Algeri – l’elemento fondamentale della messinscena è il mare, che separa e nello stesso tempo unisce. Così quasi tutto lo spettacolo si svolge sulla nave di Mustafà, evocante uno di quei transatlantici, che tra Otto e Novecento collegavano l’Europa all’America, trasportando migliaia e migliaia di emigranti. Sulla scena se ne vede prima una fiancata, che fa pensare al Rex di felliniana memoria (vedi: Amarcord), poi lo spaccato dell’interno, con tanto di salone e cabine: nel primo si svolgono le funamboliche vicende di questo “dramma giocoso”, mentre nelle cabine si vedono compiersi piccole, iperrealistiche azioni della vita quotidiana. Nel finale, un gruppo di emigranti italiani, che formano il coro, chiusi nella stiva, si scambiano fotografie delle famiglie lontane: un altro squarcio del passato, che ci fa riflettere su “come eravamo”: Morassi, dunque, evita ogni riferimento esplicito – quanto inflazionato – alla contemporaneità. Così come da soluzioni troppo scontate rifugge anche Carlos Tieppo, responsabile dei costumi, che non fa vedere sulla scena i soliti turbanti. In conclusione si tratta di una regia funzionale all’azione: né pedissequamente tradizionale né velleitariamente schiacciata sull’oggi, ma frutto di una fresca inventiva, sorvegliata da una scaltrita conoscenza del teatro. Che è poi la cifra distintiva di Bepi Morassi.
Sulla stessa lunghezza d’onda risulta il gesto direttoriale di Giancarlo Andretta, esperto interprete rossiniano, che ha al suo attivo molte esecuzioni dell’Italiana. Il direttore di Bassano del Grappa ha teso a mettere in risalto la leggerezza dell’orchestrazione, basata su un organico molto agile, in cui mancano i timpani. Tutto è chiaro nella sua lettura di questa partitura, frutto della proverbiale facilità creativa di Rossini, di cui esalta la trasparenza del tessuto sonoro, coniugando, tra l’altro, senso della misura e vivacità, senza mai lanciarsi in agogiche o dinamiche forsennate. Sempre attento alle esigenze delle voci. capace di mano sicura nell’affrontare le scene più complesse ed animate, come il finale primo, è riuscito, tra l’altro, ad assecondare i cantanti nella caratterizzazione dei personaggi, che Rossini esprime anche attraverso certe colorature e cadenze. Venendo al cast, Chiara Amarù – applauditissima nei ruoli rossiniani – ci ha consegnato, con bella voce dal timbro omogeneo e brunito, un’Isabella scaltra e coraggiosa, che non si perde mai d’animo e finisce per imporsi sui tre protagonisti maschili. Il mezzosoprano palermitano ha affrontato il difficile ruolo con grande padronanza tecnica, dimostrandosi a proprio agio nelle colorature come nel fraseggio e dando prova anche di buone attitudini attoriali: riflessiva, timorosa nella prima parte di ”Cruda sorte! Amor tiranno!”, perentoria e spregiudicata nella seconda “Già so per pratica/qual sia l’effetto”, nobile e appassionata nel celebre rondò “Pensa alla patria”. Anche il baritono bolognese Simone Alberghini ha esibito buone doti di interprete nel delineare un adorabile “mascalzone” orientale, dal dubbio fascino, com’è Mustafà, sfoggiando una voce ben timbrata e duttile, che gli ha consentito di destreggiarsi con disinvoltura nell’affrontare la talora impervia linea vocale, prevista per il suo ruolo dall’autore, segnalandosi, tra l’altro, in “Già d’insolito ardore nel petto”. Dal canto suo, Antonino Siragusa – tenore nato a Messina, ma triestino d’adozione – si è confermato particolarmente adatto a sostenere uno dei più tipici ruoli contraltini rossiniani, qual è quello di Lindoro, imponendosi sin dall’aria “Languir per una bella”, che ha suscitato nel pubblico un certo entusiasmo. Quanto a Taddeo, il baritono riminese Omar Montanari si è riconfermato artista esperto e versatile, nel delineare un personaggio di sicura comicità, pur sempre nei limiti del buon gusto, sfoggiando un timbro vagamente “alla Bruscantini” e una buona dizione anche nei passaggi sillabati, come nella prosaica “Ho un gran peso sulla testa”. Buona anche la prestazione del soprano Giulia Bolcato come Elvira – che ha reso con il giusto accento il carattere delicato di questo personaggio – e quelle rispettivamente del basso William Corrò (Haly) – particolarmente in “Le femmine d’Italia/son disinvolte e scaltre”: la cosiddetta “aria del sorbetto”, collocata all’inizio del secondo atto, quando gli spettatori erano al dessert – e del mezzosoprano Chiara Brunello (Zulma). Ottimo il coro. Successo pieno e fragoroso. Foto Michele Crosera