Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2018/19
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave da “La Dame aux camélias” di Alexandre Dumas Figlio
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valery ANGEL BLUE
Flora CHIARA ISOTTON
Annina CATERINA PIVA
Alfredo Germont FRANCESCO MELI
Giorgio Germont PLACIDO DOMINGO
Gastone RICCARDO DELLA SCIUCCA
Il Barone Douphol COSTANTINO FINUCCI
Il marchese D’Obigny ANTONIO DI MATTEO
Dottor Grenvil SEBASTIANO SPINA
Giuseppe SERGEI ABABKIN
Domestico di Flora/Commissario JORGE MARTÍNEZ
Solista delle danze MASSIMO GARON
Orchestra, coro e corpo di ballo del Teatro alla Scala
Direttore Marco Armiliato
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Liliana Cavani
Scene Dante Ferretti
Costumi Gabriella Pescucci
Coreografie Micha von Hoecke
Milano, 17 marzo 2019
Un piccolo ciclo di tre spettacoli primaverili chiude la lunga serie di recite di “La traviata” proposte dal Teatro alla Scala a partire da gennaio. Alcuni significativi cambi nel cast rendono non inutile parlare anche di queste ultime rappresentazioni. Rivedere lo storico spettacolo firmato nel 1990 da Liliana Cavani è sempre una gioia per gli occhi. Le sontuose scenografie di sapore viscontiano realizzate da Dante Ferretti e gli splendidi costumi di Gabriella Pescucci che specie per le dame appaiono quasi ritratti ottocenteschi – come quelli di Hayez ancora esposti in mostra a poche decine di metri dalla Scala – resi vivi da qualche sortilegio rinnovano la loro magia. Poi si può discutere sulla coerenza di tanto lusso con il demi-monde in cui si svolge la vicenda e forse un po’ di polvere si è depositata nel corso degli anni ma questo nulla toglie al fascino dell’allestimento anzi, se possibile, lo accresce donandogli suggestioni di quella malinconia delle foto seppiate e dei salotti borghesi di sapore gozzaniano che è una delle ragioni dell’infinito fascino dell’opera italiana su tutte le generazioni, specie per un titolo come questo così radicato nella mentalità e nelle dinamiche sociali del proprio tempo. Al suo debutto sul podio scaligero troviamo Marco Armiliato, autore di una prova di solido mestiere anche se priva di particolari slanci. Quello di Armiliato è un approccio molto tradizionale alla partitura – come si percepisce anche nella scelta di mantenere gran parte dei tagli di tradizione con la sola riapertura di “Oh mio rimorso! Oh infamia!” e dei da capo nelle cabalette – che non cerca chiavi di lettura più originali ma gestisce con sicurezza l’insieme della concertazione. Armiliato è esperto conoscitore dell’opera italiana e ha il merito di saper ben accompagnare le voci e di sostenerle sempre senza creare inutili contrasti con i cantanti, di contro qualche scollamento fra buca e palcoscenico si è percepito probabilmente da attribuire ai limitati tempi di prova di cui la produzione ha potuto disporre. Grande attesa ha accompagnato la prova di Angel Blue nel ruolo della protagonista. Subentrata all’annunciato Sonya Yoncheva la giovane cantante americana ha attirato l’attenzione dei media come prima Violetta “black” alla Scala. A prescindere dalla ricerca del clamore mediatico fine a se stesso – e se proprio si vuole indulgere sul tema più stimolante è un ideale legame con l’origine nera dei Dumas il cui capostipite Thomas Alexandre Davy de la Pailleterie eroico generale delle guerre rivoluzionarie era haitiano – la Blue è sicuramente una ragazza destinata a un grande futuro. Le qualità naturali sono rilevantissime. La voce è ampia, sonora, ricca di armonici con una tendenza a diventare sempre più sonora e squillante con il salire della tessitura fino ad acuti impressionanti per robustezza e volume – spettacolare il mi bemolle alla chiusura del I atto. Il timbro è bello, caldo, morbido, con quel suggestivo fondo brunito che è tipico delle voci afro-americane. L’interprete deve però ancora maturare specie per un ruolo così ricco di sfumature. Nel I atto è sembrata un po’ rigida, nei successivi si è fatta via via più intensa trovando momenti di sincera emozione nei passi più patetici ma restava l’impressione di un approccio più istintivo che meditato, mentre certi gesti, certi effetti risultavano decisamente troppo caricati. Peccati di gioventù e d’inesperienza destinati a risolversi con il prosieguo di una carriera che le qualità di partenza fanno sperare possa essere luminosa. Francesco Meli è un Alfredo ideale per solarità timbrica ed eleganza del fraseggio. Nel primo atto è partito un po’ circospetto ma con lo scaldarsi della voce la prestazione ha preso quota a cominciare dall’intesa esecuzione dell’aria del II atto. Voce schiettamente lirica, Meli si trova in questo repertorio perfettamente a suo agio e può sfoggiare quella qualità di canto e quella ricchezza di dinamiche e di colori che non sempre riesce ancora a esprimere al meglio in ruoli più drammatici. Placido Domingo è una delle figure più iconiche del teatro lirico degli ultimi quarant’anni e non è facile esprimere un giudizio obbiettivo di fronte alla storia che Domingo porta con sé. Sicuramente Domingo era ed è un tenore anche quando canta su tessiture baritonali perché di tenore sono la voce, l’impostazione, il modo di porgere. Domingo non è un baritono ma è un artista ancora capace di coinvolgere ed emozionare. La voce ha ancora una presenza, una sicurezza quasi inverosimile considerando la lunghezza della carriera e la vastità del repertorio affrontato. La vocalità di Germont è poi prevalentemente cantabile, più lirica che drammatica e questo agevola non poco Domingo che può far valere tutta la sua esperienza e tratteggiare un personaggio umanamente ricchissimo, dove il fraseggio e l’accento colgono ogni minima sfumatura dalla spietata durezza iniziale al crescere sempre più intenso dei sensi di colpa che traggono accenti di sincero pentimento al vecchio genitore. Tante cose si possono discutere ma le emozioni che Domingo è ancora in grado di trasmettere parlano più di ogni appunto pedantesco. Tra le parti di fianco meglio il versante femminile con la ricca vocalità della Flora di Chiara Isotton e la delicata Annina della giovane Caterina Piva. Fra gli uomini bene l’agile Gastone di Riccardo della Sciucca e il Grenvil di Alessandro Spina, purtroppo privato degli interventi del finale. Coretto ma un po’ anonimo il Douphol di Costantino Finucci e vocalmente più opaco il d’Obigny di Antonio di Matteo. Come sempre ottima la prova del coro. Sala gremita e pieno successo per tutti gli interpreti con autentiche ovazioni per Domingo verso il quale l’amore del pubblico non sembra minimamente ecclissarsi nonostante il trascorrere degli anni.