Grand-opéra in cinque atti su libretto di Eugène Scribe ed Émile Deschamps. John Osborn (Jean de Leyde), Marianne Cornetti (Fidès), Lynette Tapia (Berthe), Pierre Doyen (Mathisen), Tijl Faveyts (Zacharie), Albrecht Kludeszuwelt (Jonas), Karel Martin Ludwig (Comte d’Oberthal), Mateusz Kabala, Sven Westfeld e Arman Manukyan (contadini), Ernesto Binondo (un soldato), Mario Tardivo, Andreas Baronner e Harald Wittkop (anabattisti), Joo Youp Lee, Markus Seesing, Mateusz Kabala e Michael Haag (quattro borghesi), Laura Gergely e Anita Koczka (due fanciulli), Egdard Fehring e Matty Zinner (due ufficiali). Coro e coro di voci bianche dell’Altoo-Theater, Jens Bingert (maestro del coro), Patrick Jaskolka (maestro del coro di voci bianche), Essener Philarmoniker, Giuliano Carella (direttore).Registrazione: Aalto-Musiktheater, Essen, aprile-maggio 2017.3 CD OEHMS Classics OC971
Un vivace interesse si è prodotto negli ultimi anni intorno alla figura di Giacomo Meyerbeer, il compositore franco-tedesco è figura fondamentale nella codificazione estetica del teatro musicale europeo – per riferimento o contrapposizione – ma a lungo è stato limitato nell’alveo di una stroncatura del grand-opéra come carrozzone elefantiaco fine a se stesso. Ma come si sta finalmente riconoscendo in campo figurativo dell’art pompier dileggiata dalla avanguardie ma fondamentale per comprendere l’estetica del XIX secolo, così il grand-opéra – che per molti aspetti ne è il corrispettivo musicale – sta tornando ad essere oggetto di interesse riconoscendo in esso una concezione teatrale diversa da quelle destinate a prevalere – ma gran parte dell’opera francese e la giovane opera russa continueranno ad affondarvi le radici e persino certi protagonisti delle avanguardie musicali italiane ne subiranno l’influsso – ma non stucchevole o priva di valore. In questo processo una tappa importante è segnata dalla piccola Essen cui va il merito di aver riproposto per la mia volta in versione integrale e critica “Le prophète” forse il lavoro più compiuto dell’estetica musicale di Meyerbeer anche se privo di quella facilità melodica che tanto affascina ad esempio ne “Les Houguenots”. Vengono quindi reinseriti tutti i passaggi cambiati dallo stesso Meyerbeer alla vigilia della prima per venire incontro alle esigenze del tenore Gustave Roger, riaperti tutti i tagli – circa una quarantina di minuti di musica – nonché delle varianti per la preghiera di Jean del III atto e per il monologo di Berthe morente – forse il culmine musicale dell’opera – con il canto accompagnato da uno strumento al tempo di recente introduzione come il saxofono.
A reggere con mano abile e sicura l’imponente costruzione meybeeriana troviamo Giuliano Carella che in Germania si è creato un proprio, meritato, spazio. La direzione è infatti la parte migliore dell’ascolto. Frequentatore abituale del belcanto e del barocco Carella legge la partitura alla luce della propria sensibilità fornendone una lettura nitida, attenta ai dettagli – notevole la cura riversato sul suono e sulle sue ragioni intrinseche, di grande eleganza. Forse la paura di eccedere nella spettacolarità edonistica lo spinge a tirare le redini sul fronte drammaturgico che risulta a tratti un po’ rilassato. Meritano un plauso i complessi orchestrali e corali del teatro di Essen di una qualità media altissima, degna di compagini ben più blasonate e ulteriore attestazione dell’altra qualità del fare musica che caratterizza molte piazze tedesche anche non di primissimo piano.
Il cast vocale soffre invece per l’eccessiva disparità qualitativa fra il protagonista e gli altri interpreti, situazione quanto mai limitante in opere come queste di natura sostanzialmente corale. Resta che John Osborn è un ottimo protagonista, forse il migliore possibile oggi sulla scena. Certo la voce non ha la magia che in questo repertorio sapeva infondere il grande Gedda ma è solidissima e regge con sicurezza una parte di impervia difficoltà mostrando ancora notevole freschezza nel finale, musicalmente molto superficiale ma di certo alquanto impegnativo per il tenore. Gli acuti sono squillanti, ottimo il controllo del fiato – con suggestive prese di voce – ben centrato l’aspetto stilistico. Una prova decisamente meritevole che avrebbe meritato miglior contorno. Lynette Tapia (per la cronaca, moglie di Osborn) è musicale, educata, precisa, brava nei rapidi passaggi di coloratura ma resta una voce piccola e povera di corpo così la sua Berthe funziona al meglio nelle leggerezze virtuosistiche dei primi due atti mentre quando il personaggio acquista progressivamente spessore drammatico la mancanza di peso specifico si fa purtroppo sentire. Grande cantante è stata – e forse in altri ruolo può ancora esserlo – Marianne Cornetti ma la sua Fidès è veramente inaccettabile. Ruolo da autentico contralto non sarebbe state congeniale a lei neppure negli anni migliori ma ora oltre al registro vuoto inconsistente si palesano fin troppo evidenti oscillazioni nella tenuta della linea di canto, senso di sforzo sugli acuti, varie imprecisioni. Le difficoltà vocali la spingono a forzare l’accento portandola a perdere di compostezza e ad assumere tonalità di gusto tropo verista. Vocalmente discreti ma limitati da una problematica dizione francese molto modesta gli anabattisti Pierre Doyen, Tijl Faveyts e Albrecht Kludeszuwelt con il secondo un po’ in difficoltà a reggere i cavernosi abissi dell’aria di Zacharie. Solido e in fondo efficacie l’Oberthal di Karel Martin Ludwig e nell’insieme funzionali le numerose parti di fianco.