Venezia, Teatro La Fenice: “Werther”

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2018-2019
WERTHER”
Drame lyrique in quattro att, Libretto di Édouard Blau, Paul Milliet e Georges Hartmann, dal romanzo epistolare “I dolori del giovane Werther” di Johann Wolfgang Goethe.
Musica di Jules Massenet
Werther PIERO PRETTI
Le Bailli ARMANDO GABBA
Charlotte SONIA GANASSI
Albert SIMON SCHNORR
Schmidt CHRISTIAN COLLIA
Johann WILLIAM CORRÒ
Sophie PAULINE ROUILLARD
Brühlmann SALVATORE SCRIBANO
Käthchen PAOLA ROSSI
Gli altri figli del borgomastro SOLISTI DEL KOLBE CHILDREN’S CHOIR
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Guillaume Tourniaire
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Kolbe Children’s Choir
Maestro del Coro Alessandro Toffolo
Regia Rosetta Cucchi
Scene Tiziano Santi
Costumi Claudia Pernigotti
Light designer Daniele Naldi
Allestimento Fondazione Teatro Comunale di Bologna
Venezia, 31 gennaio 2019
Dopo una lunga assenza – vent’anni dall’ultima rappresentazione al PalaFenice al Tronchetto – è ritornato a Venezia il Werther, l’altro capolavoro di Massenet – accanto a Manon –, nel quale il processo di rinnovamento del teatro musicale francese e, in particolare, di uno dei suoi generi più tipici, l’opéra-comique, iniziato con l’opera dedicata all’eroina dell’abate Prévost, raggiunge il suo esito più ardito. Il compositore, pur innestandosi pienamente nella tradizione francese, crea un discorso continuo – interrotto da pochi numeri chiusi –, dominato dal declamato con il sostegno, determinante ai fini espressivi, di un’orchestra di ascendenza wagneriana. I colori wagneriani dell’orchestrazione – ispirati in particolare all’esempio del Tristano – hanno un’evidente valenza simbolica, sottolineando il carattere impossibile dell’amore di Werther per Charlotte, su cui trionfa inesorabilmente la morte. Ancora Wagner aleggia su questa partitura – in buona parte affine al modello dell’opera “durchkomponiert”, seguito dal compositore di Lipsia – per la presenza di motivi ricorrenti, che tuttavia sono alquanto spesso semplici reminiscenze tematiche.
Sul piano interpretativo ci è sembrato che la concezione di Guillaume Tournaire – uno dei direttori più esperti nel repertorio operistico francese – fosse veramente in linea con le intenzioni di Massenet: la sua lettura è veramente approfondita, e soprattutto riesce a mettere in primo piano l’orchestra – che, come sappiamo, l’autore considerava alla stregua del personaggio principale – senza mai compromettere le esigenze del canto, curando ogni particolare di questa partitura, che si fonda su un’orchestrazione raffinatissima, di cui ha giustamente accentuato il carattere contrastato: da squarci lirici di sapore cameristico ad esplosioni sonore violentemente drammatiche, passando attraverso qualche episodio giocoso. Questo certamente è stato possibile grazie a una compagine strumentale – tra le più collaudate nel repertorio operistico, di cui ormai si può riconoscere la particolare magia del suono – in stato di grazia, ma anche ovviamente per la presenza di un cast di eccellente livello, che ha diffusamente saputo dare adeguato rilievo ad una scrittura vocale pienamente governata dalla parola. Un cast che ha funzionato egregiamente, a dispetto dello spiacevole imprevisto, che ha costretto a sostituire, in buona parte delle recite, il tenore Piero Pretti, responsabile del ruolo eponimo, colto da indisposizione, e tornato in scena solo nelle ultime due, tra cui quella cui abbiamo assistito.
Una tipica voce di tenore lirico, dal timbro cristallino ed omogeneo, quella di Piero Pretti; una voce che passa senza difficoltà anche attraverso i più sonori ripieni orchestrali, ben governata da una tecnica ineccepibile. Con un fraseggio scolpito, in buona pronuncia francese, il tenore nuorese ha tratteggiato un Werther appassionato, quasi titanico nella sua lotta contro l’avverso destino o meglio – storicizzando – contro una società borghese, che ha tradito fondamentali valori, in nome del perbenismo, del benessere, della convenienza, e per la quale – stando almeno all’impostazione registica, di cui ci occuperemo più avanti – sembra nutrire un sentimento di amore-odio. L’unico appunto, che ci permettiamo di fare, riguarda una non sempre adeguata cura delle sfumature, un’emissione spesso abbastanza uguale a se stessa, soprattutto nel primo atto. Via via più nuancée per fortuna nel prosieguo: in particolare, nella celeberrima “Pourquoi me réveiller”. Gli ha fatto eco, nei panni di Charlotte, Sonia Ganassi. Anche il mezzosoprano emiliano – irreprensibile vocalmente per nitore di fraseggio e uniformità di timbro – ha rivelato un’emissione un po’ troppo stentorea, per quanto – a onor del vero – essa si sia progressivamente ammorbidita, arricchendosi di sfumature nella straordinaria Scena delle lettere. Ne è risultato un personaggio sempre più credibile e meritevole di umana comprensione nel suo dibattersi tra amore e dovere.Piuttosto scialba la resa espressiva di Simon Schnorr, quale Albert; il che ha contribuito a rendere particolarmente “antipatico” questo personaggio, avvezzo a crogiolarsi in un ottuso conformismo. Sprizzante candore adolescenziale, esuberante vitalità, spassionato amore è risultata la Sophie di Pauline Rouillard, dalla squillante voce di soubrette, che ha conquistato il pubblico. Di sicura professionalità gli altri componenti del Cast, tutti artisti noti al pubblico della Fenice: Armado Gabba (Le Bailli), Christian Collia (Schmidt), William Corrò (Johann), Salvatore Scribano (Brühlmann) e Paola Rossi (Käthchen); per non parlare dell’encomiabile prestazione dei piccoli solisti del Kolbe Children’s Choir.
Abbastanza singolare è apparsa l’impostazione registica – non sapremmo dire quanto fondata rispetto alla musica e al libretto – messa a punto da Rosetta Cucchi, che concepisce Werther non solo e non tanto come il prototipo dell’eroe romantico, che cerca l’assoluto nell’amore, quanto come un borghese frustrato per non aver saputo realizzare il proprio sogno familiare: una casa, una moglie, dei figli. Dal punto di vista narrativo, tutta la vicenda diventa un lungo Flashback nella mente del protagonista che, seduto in poltrona su un lato del proscenio, rivede il film della sua vita, da cui sta prendendo definitivamente congedo. Tutto avviene in uno spazio senza tempo, come del resto senza tempo sono i costumi. Gli edifici sono pure stilizzazioni, che si allontanano sempre più, man mano che il dramma si avvicina al proprio culmine: in casa di Charlotte campeggia il grande ritratto della madre, precocemente scomparsa, cui la fanciulla ha giurato di unirsi ad Alberto, a simboleggiare – secondo la visione della Cucchi – la causa prima della tragedia. Tutto risulta abbastanza gradevole e suggestivo sul piano visivo, ma appunto – così almeno ci sembra – non proprio coerente con le intenzioni di Massenet. Comunque, grande successo dello spettacolo con reiterati e calorosi applausi, ed ovazioni per i protagonisti e il direttore. Foto Michele Crosera