Piacenza, Teatro Municipale, Stagione d’Opera 2018/2019
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro quadri, su libretto di Luigi Illica.
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier MARTIN MUEHLE
Carlo Gérard CLAUDIO SGURA
Maddalena di Coigny SAIOA HERNÁNDEZ
La mulatta Bersi NOZOMI KATO
La Contessa di Coigny SHAY BLOCH
Madelon ANTONELLA COLAIANNI
Roucher STEFANO MARCHISIO
Pietro Fléville / Fouquier Tinville ALEX MARTINI
Il sanculotto Mathieu FELLIPE OLIVEIRA
Un “Incredibile” ALFONSO ZAMBUTO
L’Abate ROBERTO CARLI
Schmidt STEFANO CESCATTI
Il Maestro di Casa / Dumas LUCA MARCHESELLI
Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna
Associazione Coro Lirico Terre Verdiane – Fondazione Teatro Comunale di Modena
Direttore Aldo Sisillo
Maestro del coro Stefano Colò
Regia Nicola Berloffa
Scene Justin Arienti
Costumi Edoardo Russo
Luci Valerio Tiberi
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Ravenna Manifestazioni, Fondazione Teatro Regio di Parma, Allestimento in coproduzione con Opéra de Toulon.
Nuovo allestimento
Piacenza, 22 febbraio 2019
Non è semplice scrivere la recensione di uno spettacolo quando uno stimato collega ne ha già scritta una entusiasta, precisa ed esauriente . Eppure, allo stesso tempo, mai come per questo “Andrea Chénier” del circuito emiliano (visto al Teatro Municipale di Piacenza) se ne sente la necessità, proprio in virtù della sostanziale differenza di punto di vista. La non semplice opera di Umberto Giordano, infatti, risulta del tutto fuori dalla portata della maggior parte del cast, sia tecnico che artistico, impiegato nella produzione, e la recita piacentina incarna tutta una serie di errori endemici e di difficile estirpazione. Il primo di essi è la convinzione che il Verismo si debba cantare tutto e sempre a polmoni spiegati, infarcito di costante appassionato trasporto, anche mettendo a rischio la pulizia della linea di canto: quante volte ho sentito critici e amateur elogiare acuti tendenzialmente “calanti” o “crescenti”, o artisti cui la “tecnica verista” avesse concesso cadute di gusto! Purtroppo l’esempio più lampante di questo si è avuto con la celebre “Mamma morta”, nella quale la solitamente talentuosa Saioa Hernández appiattisce tutto in un generale “forte”, chiaro, ben scandito, ma poco adatto alla ricca gamma emotiva che il racconto di Maddalena di Coigny prevede. Conosciamo il grande coinvolgimento che investe il soprano spagnola nelle sue interpretazioni, e quindi intuiamo la probabile emozione, ma la sua prova è tutta segnata da una linea di canto perennemente sopra le righe, che ne riducono la varietà espressiva. Si potrebbe opporre a questo giudizio un’accusa di ipercriticismo (soprattutto in virtù delle sperticate lodi che la cantante sta raccogliendo ultimamente), ma la Hernández non è più una “giovane” interprete, “in ascesa”, ma una primadonna scaligera, e se ne insulterebbe l’intelligenza e il valore non comparandola a grandi Maddalene del passato e del presente che la vedrebbero perdente. Comunque sia, lo stesso “vizio” canoro-espressivo lo riscontriamo, da principio, anche in Martin Muehle, impegnato nel ruolo di Chénier: tuttavia il tenore brasiliano riesce a correggersi durante la recita, e arriva negli ultimi due quadri a una performance di ragguardevole intensità, coinvolgente e misurata, tecnicamente quasi perfetta, dagli echi corelliani. Buono anche il risultato del baritono Claudio Sgura, un Carlo Gérard vocalmente solido e dal fraseggio pulito. Anche i ruoli di fianco, in un’opera come “Andrea Chénier” fanno la differenza, e questa produzione ne presenta un nugolo ben assortito e di apprezzabile qualità: la graziosissima Contessa di Coigny di Shay Bloch, frivola quanto basta; Nozomi Kato, una Bersi appassionata e vocalmente sicura e omogenea; Antonella Colaianni nei panni della struggente Madelon, interpretata con trasporto appropriato e con colore giustamente senile; di spicco il Mathieu di Fellipe Olivera, che stupisce per il timbro caldo, tondo; corrette le interpretazioni anche del resto del cast – il Roucher di Stefano Marchisio, Alex Martini nel doppio ruolo di Fléville e Fouquier Tinville, Roberto Carli (un Abate ben caratterizzato), Stefano Cescatti (Schmidt); appare discontinuo l’Invisibile di Alfonso Zambuto, talvolta soverchiato dall’orchestra. Proprio la direzione orchestrale, infatti, ha sollevato più di una perplessità: la partitura di Giordano, l’abbiamo già detto, è ardua e richiede una precisione agogica e una coesione tra buca e scena praticamente perfetta; purtroppo lontana dalla perfezione è la conduzione del Maestro Aldo Sisillo, che fatica in più di un punto a tenere insieme cast e orchestra, con particolari difficoltà nei momenti di insieme (soprattutto il concertato del secondo quadro risulta confuso, poco omogeneo); inoltre è forse a lui imputabile d’aver accettato certe scelte stilistiche di dubbio gusto, come quella “a tutto volume” di cui sopra, o certi rubati patetici un po’ d’antan. Un plauso deve, invece, andare al Coro Lirico delle Terre Verdiane, potente e amalgamato, ben diretto dal Maestro Stefano Colò, anche in quei momenti nei quali la regia lo mette più a dura prova scenicamente. L’anello assolutamente più debole della produzione è infatti l’équipe creativa, che, con la sola eccezione dei costumi ben confezionati da Edoardo Russo, sembra del tutto ignara del libretto, del contesto, ma soprattutto della drammaturgia musicale dell’opera. Il Verismo si contraddistingue, tra le altre cose, proprio per una ineludibile narrazione musicale, che sovente guida i movimenti scenici: Nicola Berloffa sembra del tutto ignorare questo aspetto, per imporre movimenti e scelte registiche fuori luogo, al limite del ridicolo. C’è veramente bisogno di presentare una Maddalena dai capelli rossi, con tutto il cantare che si fa del suo “biondo crine”? E di sostituire la gavotta alla fine del primo quadro con l’impalatura della contessa ad opera dei suoi servi, precedentemente denudatisi? E di legare, senza nemmeno un buio o una pausa, il primo e il secondo quadro con goffi cambi di scena a vista? Di far urlare il coro come bambini pestiferi? Di far giocare le Meravigliose con teste mozzate, manco fossero le antenate di Salome? E di un Mathieu che canticchia la Carmagnola ubriaco e assalito dalle prostitute? Tutte scelte atte unicamente a svilire soprattutto il libretto – e, ironia della sorte, questa produzione porta come sottotitolo “Omaggio a Luigi Illica”, in quanto ricorre il centenario della morte del librettista piacentino. La regia ha libertà d’azione e invenzione quando il libretto e la partitura glielo permettono: questa libertà, nell’affrontare il repertorio verista, dev’essere sempre messa al vaglio delle intenzioni degli autori, non può essere elusa per supposti “intenti artistici” che di artistico hanno ben poco. Sulla stessa linea di inconsapevolezza si muovono le scene di Justin Arienti: la scena è infatti risicata a metà palco, per il desiderio di angolare il luogo dell’azione; si cita (quanto di proposito non si può dire) il “Nabucco” ronconiano, facendo sì che primo, terzo e quarto quadro vengano dominati da dipinti celebri, ma anche qui la scelta cede il passo al cattivo gusto: si sceglie, infatti il celebre ritratto di Maria Antonietta con i suoi figli del 1787 (opera di Élisabeth Vigée-Lebrun, celebre per rappresentare, nella sua cupa compostezza, il dolore per la morte dell’ultimogenita della Regina), ma la famiglia reale fresca di lutto viene inserita in un pretestuosisssimo fondale naturale di gusto arcadico, senza nessuna ragione; parimenti, il dipinto che i figuranti fingono di terminare nel quadro terzo, è evidentemente ispirato alla “Libertà che guida il popolo” di Delacroix, che però rappresenta le Tre Gloriose Giornate parigine del 1830! Un’approssimazione scenica che si vuole mascherare ponendo la ghigliottina sul palco per tutto il dramma, ma non usandola veramente se non alla fine, e relegandola quindi ad arredo di scena – sfiora il paradossale Bersi, quando vi si mette sotto per cantare il suo breve assolo del secondo quadro, come sporgendosi da una cornice. Queste sono solo poche delle troppe boutade con le quali la regia costella tutta la recita, guastandola ad un occhio attento. Il pubblico più ingenuo, invece, sembra non curarsi di tutto ciò, e ricopre di consensi tutti, indistintamente. “Omnia munda mundis?”. Foto Rolando Paolo Guerzoni